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Mario Monti, la sobrietà e i privilegi

Diavolo di un uomo. Per quanto comico di professione, e che comico, Beppe Grillo pretende di essere preso sul serio con questa storia, appena formalizzata, di togliere il suo nome dal Movimento 5 Stelle. Come se d’incanto avesse davvero svezzato il suo partito, liberandolo dalla sua dipendenza. Come se, sempre d’incanto, non fosse più possibile, o corretto, definire grillino il suo partito, e grillini i suoi seguaci.

Ma non sarà certamente l’espediente anagrafico del comico genovese a cambiare l’identità del suo partito, o movimento, e dei suoi eletti alle Camere e alle amministrazioni locali. Grillini erano, grillini sono e grillini resteranno. Anche perché continuerà a bastare materialmente uno starnuto di Grillo, più ancora di un monosillabo di Gianroberto Casaleggio, a dettare o a cambiare una linea, a promuovere o a bocciare un aspirante candidato, a salvare o a dannare un dissidente, e a multarlo con l’equivalente di una casa. Equivalente, perché con 150 mila euro, o 250 mila per un europarlamentare, su può acquistare almeno un bilocale in una città di tutto rispetto.

Che poi le multe di Grillo, e Casaleggio, non siano “esigibili in nessun tribunale”, come ha assicurato un giurista competente come il professore Gianfranco Pasquino, ai capi pentastellati può interessare poco. A loro, con i soldi e le strutture, diciamo così, di cui dispongono per reclamare quello che ritengono il dovuto grazie a regolamenti e contratti sottoscritti, gli avvocati costeranno sempre meno che ai dissidenti costretti a resistere.

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Come non basterà a Grillo togliere il proprio nome dal titolo e dal simbolo del Movimento 5 Stelle per liberarlo dalla sua dipendenza, così non basterà a Mario Monti la foto che lo ha sorpreso seduto sui gradini di un ospedale, in sobria attesa del turno della visita a sua moglie, per sollevarlo dalla condizione pur legittima di privilegiato in cui vive, e ancora di più vivrà se davvero il Senato finirà di essere quello che è e i senatori di nomina presidenziale non saranno più a vita, durando quanto il capo dello Stato che li ha premiati. A vita rimarranno solo i senatori di diritto in quanto ex presidenti della Repubblica e quelli, come Monti appunto, che hanno avuto la fortuna di essere nominati tali prima della riforma costituzionale in dirittura d’arrivo.

La logica, o solo il buon gusto, come preferite, vorrebbe che, a riforma approvata dal Parlamento e confermata dagli elettori col referendum sul quale Matteo Renzi ha coraggiosamente scommesso la sua carriera politica, i senatori a vita di nomina presidenziale si dimettessero. E non si arroccassero nella difesa dei diritti acquisiti, come stanno facendo gli ex parlamentari che, spesso fra proteste e derisioni, difendono i loro vitalizi, generalmente cumulati con le pensioni maturate come dipendenti di aziende pubbliche o private, magari grazie a contributi cosiddetti figurativi, cioè finti, comunque non pagati concretamente da loro, o non per intero.

Credete veramente che ci saranno senatori a vita, di nomina presidenziale, disposti a lasciare il nuovo Senato per non rappresentare un’eccezione impopolare? Personalmente ne dubito. E sarei felicissimo di essere smentito dai fatti.

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D’altronde, a incollare ai loro seggi i quattro senatori a vita di nomina presidenziale in carica, che sono, in ordine rigorosamente alfabetico del loro cognome, Elena Cattaneo, Mario Monti, Renzo Piano e Carlo Rubbia, è la stessa riforma costituzionale. Che contiene la solita, provvidenziale “disposizione finale” a tutela  della loro condizione, regolata “secondo le disposizioni già vigenti alla data di entrata in vigore della presente legge costituzionale”. Essi potranno insomma restare al loro posto sino alla morte, la più lontana possibile naturalmente. “Lunga vita ai senatori a vita”, gridò una volta Sandro Pertini rifiutando la “indecente” proposta, fattagli dal segretario del suo partito, di dimettersi da presidente della Camera per essere nominato senatore a vita alla morte del primo di quelli allora in carica.

A subire in qualche modo le conseguenze della riforma saranno solo le prerogative dell’attuale presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Che, pur potendo ancora nominare, per l’articolo 59 della Costituzione, “senatori a vita cinque cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”, si trova moralmente costretto a rinunciare al diritto di coprire l’unico laticlavio oggi a sua disposizione. Se vi provvedesse prima della riforma, scaricherebbe deliberatamente, e antipaticamente, sulla futura assemblea di Palazzo Madama un senatore a vita non più contemplato nel suo organico, essendone consentiti solo di durata non superiore al proprio mandato presidenziale.

E anche quando, con l’arrivo del nuovo Senato, potrà tornare a nominare senatori, stavolta non più a vita, Mattarella si troverà in condizione di farlo solo per uno. Per gli altri quattro, in forza di una disposizione “transitoria” della riforma, dovrà aspettare, nei sei anni residui del suo mandato, che muoiano, via via, quelli in carica: dal più anziano, che è l’82.enne Rubbia, alla più giovane, che è la 54.enne Cattaneo. In mezzo ci sono il 79.enne Piano e il 73.enne Monti.

In fondo, anche per restituire al capo dello Stato le sue prerogative, nella nuova versione costituzionale, i cinque senatori in carica perché nominati dal suo predecessore dovrebbero avvertire la sensibilità civica di rinunciare al laticlavio.

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