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Come si incarta un po’ Marco Travaglio nella guerra di carta contro Matteo Renzi

Roberta Lombardi e Marco Travaglio

Al netto, naturalmente, dell’orrore cui ci condanna a vivere il terrorismo islamista e dell’angoscia procurata da un’Europa troppo vulnerabile, ciò che mi diverte di Matteo Renzi, anche quando mi capita – e mi capita spesso – di non condividerne decisioni e soprattutto metodi, è la capacità di far perdere la testa agli avversari più incaponiti. Che nella foga di dargli addosso nel teatrino della politica italiana arrivano a scambiare fatti e persone, nomi e circostanze.

Il povero Marco Travaglio, che – a parte la condivisione della cautela sul fronte libico – combatte il presidente del Consiglio e segretario del Pd con la stessa intensità, direi anche ossessione, riservata in passato a Bettino Craxi, poi a Silvio Berlusconi e infine a Giorgio Napolitano, giusto per convincersi di essere equanime nelle sue offensive di carta, è appena riuscito sul suo Fatto Quotidiano, nell’ennesima polemica appunto con Renzi, a scambiare una legge elettorale per un’altra. E a dare per già applicato nelle elezioni politiche del 2013, come vedremo, il cosiddetto Italicum. Che, pur fortissimamente voluto da Renzi, è stato sì approvato dal Parlamento, addirittura con il ricorso alla fiducia per mettere in riga il più possibile i dissidenti del suo partito, ma non potrà entrare in vigore prima dell’estate prossima. E, in più, dovrebbe superare un esame preventivo della Corte Costituzionale strappatogli dalla minoranza del Pd fra le inutili e solitarie proteste del vice presidente renzissimo della Camera, e ora anche candidato a sindaco di Roma, Roberto Giachetti. Ciò nel contesto peraltro di una riforma costituzionale di là ancora da venire, visto che le mancano ancora l’ultimo passaggio alla Camera e il referendum cosiddetto confermativo. Siamo, insomma, in un intreccio a dir poco pasticciato di riforme che Renzi spera di vedersi ugualmente approvare dai cittadini nella presunzione, si vedrà se giusta, che cambiare sia comunque meglio che lasciare le cose come stanno.

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A far perdere la testa al povero Travaglio, e a dare ragione a quei siciliani convinti che a “travagliare troppo, troppo si sbaglia”, è stato in particolare il diritto rivendicato da Renzi al congresso dei giovani del suo partito di cercare e di prendersi in Parlamento, soprattutto al Senato, i voti degli odiati verdiniani, e non solo quelli degli alfaniani, mal sopportati pure loro ma almeno concordati all’atto di formare il suo governo. Un diritto derivante dalla sconfitta subìta dal Pd nelle ultime elezioni politiche, che l’allora segretario del partito Pier Luigi Bersani preferì chiamare “non vittoria”. Ma sconfitta di certo fu, anche se Travaglio, superando stavolta anche l’ottimismo di Bersani, è convinto del contrario. Convinto, cioè, che il Pd, salvo l’incidente della sconfitta – quella, sì, indiscutibile – al Senato, le elezioni del 2013 le vinse alla grande alla Camera. Dove, pur avendo riportato gli stessi voti dei grillini, o quasi, grazie all’alleanza elettorale stretta con il partito di Nichi Vendola si portò a casa, testualmente, “il premio di maggioranza previsto dall’Italicum per la prima coalizione”.

L’Italicum, che peraltro contempla il premio di maggioranza alla prima lista, non coalizione, era allora semplicemente inimmaginabile. Vigeva invece una legge elettorale chiamata non a torto Porcellum dal suo stesso principale autore, il leghista Roberto Calderoli, per il sistema delle liste bloccate e dei premi di maggioranza distinti tra Camera e Senato, nazionali i primi e regionali i secondi. Una distinzione letale ai fini della governabilità, ma praticamente imposta dal presidente della Repubblica all’epoca dell’approvazione della legge, Carlo Azeglio Ciampi, con un ulteriore passaggio parlamentare che si sarebbe potuto concludere, se la maggioranza avesse voluto, con la conferma del testo già uscito dalle Camere, con tanto di premio nazionale anche al Senato. E che, se votato daccapo, il capo dello Stato avrebbe dovuto promulgare per forza, salvo bocciature successive da parte della Corte Costituzionale, arrivate per altri aspetti di quella legge.

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Un altro al quale Renzi ha fatto perdere la testa, politicamente parlando, è Massimo D’Alema. Al quale, dopo gli ex collaboratori Claudio Velardi e Fabrizio Rondolino, e poi anche l’ex compagno ed estimatore Giuliano Ferrara, ora anche Andrea Peruzy ha ricordato di avere inutilmente tentato negli anni Novanta, alla direzione del partito o del governo, ciò che adesso egli contesta con tanta durezza a Renzi: per esempio, una riforma costituzionale d’intesa con una parte della destra e un rapporto non subordinato con i sindacati, in particolare con la Cgil guidata dal “signor Cofferati”, come D’Alema lo chiamava con tono polemico, dimenticando gli anni in cui chi dirigeva quel sindacato era soprattutto un compagno.

Renziano inconsapevole, prima ancora che Renzi gli succedesse e lo rottamasse, D’Alema avrebbe il torto, secondo l’amico Peruzy, fra gli artefici della sua Fondazione Italianeuropei e oggi amministratore delegato di una società controllata dal Ministero del Tesoro per tutelare forniture elettriche a famiglie e piccole imprese, di trasformare “il dispiacere” del ricambio, avvenuto alla guida della sinistra, “in rancore”. Un torto umanissimo, per carità, ma sempre un torto. Forse c’è del vero in questa psicanalisi, più che analisi politica, affidata da Peruzy al Foglio.

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