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Tutti i nodi irrisolti in Europa, Libia e Italia su profughi e migranti

Nell’estate 1998 la stampa italiana scriveva di “emergenza immigrazione” perché nei primi 21 giorni di luglio erano sbarcati 2.773 immigrati. In due soli giorni dell’ottobre 2016 ne sono stati salvati addirittura 11 mila. In quell’estate ’98 arrivavano soprattutto dalla Tunisia e si fermavano a Lampedusa e a Pantelleria: i tunisini chiudevano un occhio sulle partenze perché volevano aiuti economici dall’Italia, ottenuti il 6 agosto 1998 al termine di un’intera giornata di trattative al ministero degli Esteri che costò all’Italia 250 miliardi di lire sotto forma di aiuti vari in cambio di un accordo di riammissione. Poche settimane prima il Viminale aveva comunicato che da marzo a luglio ne erano stati già espulsi 13 mila.

In vent’anni è cambiata radicalmente la geopolitica nei Balcani, nell’area del Mediterraneo e nei Paesi arabo-musulmani e oggi la principale preoccupazione sul fronte immigrazione non è la Tunisia e tantomeno l’Albania come allora bensì la Libia. Nel 1997 il governo varò un decreto che introduceva un blocco navale davanti alle coste albanesi che portò alla tragedia del Venerdì santo, quando la corvetta “Sibilla” della Marina militare urtò l’imbarcazione Kater-i-Rades che cercava di sfuggire ai controlli per raggiungere la Puglia: morirono oltre 100 persone. I politici e i giornalisti che l’anno scorso invocavano un blocco navale davanti alla Libia non conoscono l’argomento o hanno scarsa memoria.

Quasi vent’anni dopo stiamo aspettando che il (debole) governo libico di Fayez al-Sarraj chieda, con il beneplacito dell’Onu, di dare il via alla fase 3 della missione Eunavfor Med (consentendo l’accesso fin sulle coste libiche per combattere gli scafisti) mentre è impegnato in un audace tentativo di formare un governo “unitario” con Tobruk. Da Tobruk, però, continuano a non sentirci e anzi non perdono occasione per attaccare l’Italia che sostiene al-Sarraj e gradirebbe molto che smettessero di odiarsi. Ali al-Qatrani, uno dei vicepremier e braccio destro del generale Khalifa Haftar, durante una visita a Roma ha detto che “l’Italia deve cambiare la sua politica in Libia” e sostenere Haftar, “l’unico in grado di garantire la sicurezza delle coste”. Ha poi aggiunto che “dai nostri 1.100 chilometri di coste della Cirenaica non è mai partito un solo migrante” mentre “in 250 mila stanno tentando di passare dal Sudan”. Conclusione: se non li controlliamo noi “è un rischio per l’Italia perché dicono che sono migranti, ma stanno cercando di arrivare in Italia per farsi esplodere”. Parole tali che il giorno successivo (chissà se dopo pressioni diplomatiche) al-Qatrani ha fatto una precipitosa marcia indietro, spiegando che nelle sue parole non c’erano connessioni tra l’azione politica italiana e il rischio terroristi e ringraziando l’Italia per quanto sta facendo.

A complicare il quadro si aggiunge un articolo del Foglio dell’8 ottobre, secondo il quale sarebbe sbarcata, mescolata tra i migranti, una decina di militanti Isis appositamente lasciati liberi dall’intelligence per monitorarne i movimenti, notizia smentita ufficialmente dalla Polizia.

Ma la situazione è davvero (in un altro senso) esplosiva. I dati forniti dall’Oim, l’Organizzazione internazionale delle migrazioni, spiegano bene che è l’Italia ad avere i maggiori problemi: dall’inizio del 2016 in Europa sono arrivati via mare oltre 314 mila migranti, di cui quasi 167.500 in Grecia e 143.184 in Italia (dato al 7 ottobre), che per noi significa più 5,54 per cento rispetto all’anno scorso vista l’impennata dei giorni scorsi. L’Oim rileva che il numero complessivo è molto inferiore al 2015, quando furono 518.181 per l’emergenza greca, ma sappiamo che l’accordo con la Turchia ha momentaneamente risolto i problemi su quel fronte mentre oggi l’Italia non sta ricevendo nessun aiuto. “L’Europa deve tornare a rispettare le regole del diritto” e il fatto di “vedere che certi Stati membri si distinguono nel non rispettare le regole mi rattrista”, ha detto il presidente della commissione Ue, Jean Claude Juncker, il quale riferendosi all’Ungheria ha aggiunto che se ogni Stato che non è d’accordo sulla redistribuzione interna organizza un referendum, “non sarà più possibile gestire l’Unione europea” e “sarà l’inizio della fine”.

In Italia la situazione è resa ancora più delicata dalle polemiche che aumentano in vista della Legge di bilancio e del referendum costituzionale. Il ministro dell’Interno, Angelino Alfano (nella foto), ha detto che il motore dell’azione dei populisti “è la rabbia sociale che fa leva sulla disoccupazione e sulla diminuzione della forza economica delle nostre famiglie e insieme sull’ansia e sulla paura sui temi dell’immigrazione e della sicurezza”; quindi l’Europa deve finalmente decidere su economia e immigrazione. Finora, però, non si intravedono svolte ed è preoccupante che nel dibattito italiano non si trovi mai spazio per affrontare e risolvere un tema davvero esplosivo: far lavorare gli immigrati finché sono ospiti, rendere obbligatori un’attività e corsi di italiano come avviene all’estero. Non si può scaricare questo peso solo sulle spalle dei Comuni, spesso piccoli e con pochissimi soldi: si cambi la normativa con un decreto di poche righe e si mandi così un segnale ai cittadini di ogni orientamento politico che vedono migliaia di profughi (se ritenuti tali) o di immigrati destinati all’espulsione (se non hanno diritto di restare) girovagare senza sapere come occupare le giornate.

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