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Facebook, Google, Snapchat e Twitter. Ecco perché agli editori non piacciono (troppo) i social network

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Quanti dei ricavi degli editori oggi sono generati grazie alla distribuzione dei contenuti sui social network (e altre piattaforme di terze parti)? Appena il 14% del fatturato totale del primo semestre 2016, ovvero 7,7 milioni di dollari per ciascun gruppo editoriale, ha calcolato l’ultimo Distributed Content Revenue Benchmark Report realizzato da Digital Content Next sulla base di un sondaggio su 17 gruppi internazionali dei media.

IL VIDEO È RE

Il campione dello studio di Digital Content Next non è molto vasto, ma include colossi come Financial Times, Bbc, Espn, Bloomberg, Nbc, New York Times, Forbes, Usa Today. In linea generale editori puri, riviste e giornali preferiscono distribuire i loro contenuti su siti come Msn, Yahoo, Aol con i cosiddetti accordi di syndication; tra social network e Over the top, prediligono Facebook Instant Articles e Google Accelerated Mobile Pages (Google AMP). I gruppi della Tv e del cavo invece puntano sugli OTT, in particolare YouTube.

Il video resta la forma di distributed content più remunerativa. Se nei primi sei mesi del 2016 la distribuzione di contenuti sul web ha reso ai 17 editori studiati una media di 7,7 milioni di dollari ciascuno, il video rappresenta l’85% di questo totale (6,5 milioni di dollari). Il risultato risente del notevole utilizzo dei programmi di monetizzazione degli OTT da parte delle aziende di Tv e cavo (ogni gruppo editoriale ha guadagnato in media 4,6 milioni di dollari dagli OTT). Il restante 15% è da attribuirsi ai social media (quasi 1,4 milioni di dollari in sei mesi) e agli accordi di syndication (1,6 milioni) con siti come Aol, Yahoo, Msn e Apple News; Google AMP rappresenta appena una media di 27.000 dollari per editore, ma il sondaggio è del primo semestre 2016 e Google AMP era stato lanciato pochi mesi prima per cui il prodotto era usato da pochissimi editori.

SOCIAL: NESSUNO È PERFETTO

Nessuna piattaforma per la distribuzione dei contenuti sul web offre un sistema che soddisfa del tutto gli editori tradizionali. La prima fonte di revenues per i giornali restano i siti terzi con cui hanno accordi di syndication, ma Aol e Yahoo attraggono meno perché le revenues sono in contrazione e Apple News non convince perché è un sistema chiuso. L’attenzione per i social è molto maggiore.

Tra questi, Facebook è il sito dove essere presenti è d’obbligo per via della platea gigantesca cui espone: tutti gli editori usano questo canale (seguono, nell’ordine, Twitter, YouTube e Snapchat). La maggior parte monetizza tramite il rimando al sito proprierario; alcuni editori usano Instant Articles (IA), ma, dicono gli editori, rende meno, nonostante FB sostenga che l’uso di IA porti a un aumento del 25% del consumo di contenuti. Ma con IA gli editori perdono il controllo del contenuto e dei dati del lettore – tanto che una ricerca di settembre 2016 di NewsWhip sosteneva che alcuni degli early adopters ora usano meno questo strumento. È vero che gli articoli di IA (segnalati dal simbolo del fulmine) si caricano più velocemente e ottengono più condivisioni, ma non più commenti e, soprattutto, il lettore resta su FB.

Gli editori sono più soddisfatti delle possibilità di monetizzazione con Facebook Branded Content e con Facebook Audience Extension. Facebook è il social da cui si generano più guadagni (rappresenta per ciascun editore in 6 mesi ricavi di 560.000 dollari), rispetto a Twitter (480.000 dollari) o Snapchat (190.000 dollari), ma gli editori pensano che Facebook sia poco attenta a sostenere la riuscita dei programmi di monetizzazione degli editori. In più, gli editori bocciano Facebook Live e Suggested Video che non hanno “scala” sufficiente per le aziende della Tv e non permettono analisi indipendenti delle prestazioni.

SNAPCHAT, GUADAGNI FANTASMA. O NO?

Diversi editori hanno provato a distribuire su Snapchat, molti senza margini di guadagno. Ma Snapchat interessa per la platea di giovanissimi che raggiunge e il cosiddetto “engagement” con lettori adolescenti è per alcuni un risultato sufficiente. Molti editori dello studio di Digital Content Next si lamentano del fatto che la sezione Discover è invitation-only, che il modello di licensing è stato da poco modificato a vantaggio di Snapchat e che la società collabora poco con gli editori.

Qualche entusiasta però c’è: Mashable riporta il caso di Cosmopolitan e di altri partner top di Discover che dicono di avere milioni di visualizzazioni giornaliere e di riuscire a vendere il proprio inventario di ads con guadagni annui a sette o otto cifre. Ma la credibilità di Snapchat Discover è ancora tutta da provare, perché la piattaforma non è esente da fake news o titoli e foto a dir poco ammiccanti e comunque sono ancora pochi gli editori che davvero monetizzano distribuendo su Snapchat. Il social dei messaggini fantasma è ancora una frazione delle entrate degli editori ma, mentre si prepara a un‘attesissima Ipo, continua ad aggiungere strumenti per pubblicare contenuti e ad attrarre clienti del mondo dei media.

IL TRAMONTO DI TWITTER

Quasi tutti gli editori sono su Twitter e il volume dei ricavi è vicino a quello ottenuto su Facebook. E’ il paradosso di una piattaforma che sembra condannata a un fallimento eccellente: è ideale per i giornali e i giornalisti e offre accordi di partnership molto più favorevoli degli altri social, soprattutto con i contenuti sponsorizzati e quelli brande, benché non si raggiunga il livello di interazione ottenuto su Facebook. Il tallone d’Achille di Twitter è infatti la dimensione: la sua platea è minuscola rispetto a Facebook e YouTube. Twitter ha cercato di rilanciarsi con prodotti video (live streaming, Amplify), che sono apprezzati, ma gli editori dicono che mancano di “scala”.

Le aziende della Tv e del cavo riescono meglio degli editori puri a monetizzare su Twitter; anzi, in generale le aziende della Tv sono quelle che riescono più dei gruppi che pubblicano giornali o riviste a monetizzare la distribuzione sui siti esterni.

YOUTUBE, GUADAGNI AL TOP

YouTube è la singola fonte più cospicua di guadagno per gli editori: ciascuno, in media, ci ha ricavato quasi 800.000 dollari nel primo semestre 2016, contro 850.000 dollari ricavati da tutti gli altri partner di syndication, svela lo studio di Digital Content Next. Quasi tutti gli editori che distribuiscono contenuti su YouTube li monetizzano e i benefici maggiori sono, come su Twitter, per le aziende della Tv o del cavo. Come partner editoriale YouTube offre diverse forme di monetizzazione, ma controlla anche da vicino le vendite di pubblicità con modelli che gli editori non considerano del tutto favorevoli perché, dicono, YouTube dà la priorità al proprio inventario pubblicitario, fatto di ads che si possono saltare dopo 5 secondi, rispetto all’ad inventory dell’editore partner con pubblicità che non si possono saltare. Un flop è invece considerato YouTube Red, il servizio a pagamento di YouTube: pochissimi lo usano, nessuno ci guadagna.

In generale gli editori considerano Google un’azienda Google più disponibile e collaborativa rispetto a Facebook e Snapchat. Del gruppo di Mountain View è apprezzato anche il prodotto Google AMP, che migliora la user experience su mobile, definito più publisher-friendly di Facebook Instant Articles e che piace specialmente agli editori di giornali (offre meno ai gruppi della Tv o del cavo).

A fine 2016 (quasi 6 mesi dopo che Digital Content Next ha svolto il suo sondaggio) il Wall Street Journal scriveva però che molti editori (centinaia usavano a quel punto Google AMP) avevano perso entusiasmo nei confronti del servizio di Google perché non troverebbero ritorni soddisfacenti a causa delle regole e limitazioni sulle ads che si possono collegare a questo servizio – una lamentela espressa da molti editori anche su Facebook IA.

GLI EDITORI SONO “INDIETRO”?

Facebook ha di recente modificato in parte le regole di AI, mentre agli editori insoddisfatti di AMP Google ha risposto che questo prodotto è disegnato per farli guadagnare di più rispetto al proprio sito mobile e quindi, se guadagnano meno, il problema sarebbe nell’advertising technology che gli editori usano. Editori forse con tecnologie più aggiornate, per esempio Cnn, affermano che Google AMP garantisce contatti e revenues pari ai siti mobile proprietari, ma ribadiscono che Google AMP dovrà essere in grado di accettare sempre più format pubblicitari, se no il vantaggio diminuisce.

Lo studio di Digital Content Next è molto proiettato sull’evidenziare gli interessi degli editori rispetto ai potenziali vantaggi di distribuire i contenuti su piattaforme esterne. Ma non manca di sottolineare un aspetto che sicuramente conta molto, insieme alla necessità di usare tecnologie moderne: avere uno staff qualificato e dedicato alle strategie di distribuzione dei contenuti sui social. “Ad oggi, la maggior parte degli editori non ha investito in nuovo personale o in corsi di specializzazione per il personale esistente sui temi della monetizzazione del distributed content”, si legge nello studio. La maggior parte degli editori gestisce la monetizzazzione dei contenuti distribuiti su siti esterni con manager e team che fanno anche altro. Eppure, sono gli editori con team di esperti e strategie mirate a portare a casa i guadagni maggiori.

GAP “ECONOMICO”

La monetizzazione del distributed content è un mix di opportunità e sfide; tuttavia le sfide andranno superate perché l’ecosistema editoriale e pubblicitario digitale è in misura crescente dominato da piattaforme di terze parti che attraggono audience molto vaste e controllano quale contenuto viene visualizzato e come viene monetizzato. Gli editori forse non hanno ancora strategie mature per distribuire e monetizzare i loro contenuti su piattaforme esterne, tuttavia le piattaforme di distributed content offrono possibilità di monetizzazione a volte molto inferiori, afferma Digital Content Next, alla qualità dei contenuti che questi editori distribuiscono e che contribuiscono a dare più credibilità alle piattaforme stesse sia tra il pubblico degli utenti che tra gli inserzionisti.

Il dilemma da sciogliere per gli editori è soprattutto questo: piattaforme come Facebook e Google portano molto traffico monetizzabile ai loro siti web ma agiscono anche come concorrenti degli editori. Programmi come Google AMP, Facebook Instant Articles e Snapchat Discover sono poi disegnati per lasciare il contenuto dell’editore sulla piattaforma esterna alla quale si trasferisce il controllo della monetizzazione dell’audience e dei dati su chi legge. Come scrive Business Insider (che ha partecipato al sondaggio di Digital Content Next), esiste un “gap economico” tra il numero di lettori e il tempo passato sulle piattaforme terze di distribuzione e il denaro che i gruppi tradizionali dei media ne ricavano, spesso dopo aver investito per lo staff e la qualità del loro contenuto.

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