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Henry John Woodcock fra Matteo Renzi e Massimo D’Alema

Henry John Woodcock
Mentre grillini, leghisti e altri antirenziani irriducibili, fuoriusciti o rimasti nel Pd, continuano a reclamare la sfiducia al ministro Luca Lotti, accusato dagli inquirenti di avere boicottato, da solo o di concerto con due generali dei Carabinieri, l’inchiesta sugli appalti della Consip per gli acquisti della pubblica amministrazione, avvertendo i dirigenti delle intercettazioni alle quali erano sottoposti, la Procura di Roma ha preso una decisione che dovrebbe far riflettere le opposizioni. Dalle quali invece non sono arrivati cenni di ripensamento. Né arriveranno – c’è da scommetterci – perché non c’è più sordo di chi non vuole sentire, come dice un vecchio proverbio.
La decisione della Procura romana, dalla quale quella di Napoli, dove è partita l’inchiesta, è stata letteralmente spiazzata, ha estromesso dalle indagini i Carabinieri del nucleo ambientale allertati in Campania del sostituto procuratore Henry John Woodcock: quello che il compianto presidente emerito della Repubblica Francesco Cossiga riempiva pubblicamente di considerazioni ed epiteti che non ripeto per non rischiare querele.
L’estromissione dei Carabinieri del nucleo ambientale – riusciti a ricostruire, fra l’altro, i pizzini stracciati dall’imprenditore arrestato Alfredo Romeo, e recuperati fra le immondizie, con l’iniziale del nome del padre di Matteo Renzi affiancata dalla cifra di 30 mila euro mensili –  è stata collegata dalla Procura romana con significativa chiarezza alle troppe fughe di notizie sulle indagini.
Si è quindi fatto ricorso a Carabinieri, sempre loro, di un altro reparto nella speranza che si rivelino più blindati o quanto meno discreti, diciamo, secondo il noto intercalare di Massimo D’Alema. A proposito del quale una impertinente ricostruzione del Foglio ha ricordato la sensazione attribuitagli nella scorsa estate che il suo rottamatore e allora presidente del Consiglio potesse cadere per qualche complicazione giudiziaria, e non solo per il referendum sulla riforma costituzionale. Su cui lo stesso D’Alema si stava mobilitando per battere l’avversario di partito sul piano politico.
Di fronte al colabrodo avvertito e denunciato dalla Procura di Roma, non da qualche renziano sfegatato, per non parlare degli infortuni degli inquirenti rivelati per telefono alla trasmissione televisiva Bersaglio mobile, su la 7, dall’avvocato difensore dell’indagato Marco Gasparri, diventa ancora più difficile prendersela –ripeto- con Lotti per l’allarme scattato fra i dirigenti e negli uffici della Consip.
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Sul piano più strettamente politico, al netto del clamore provocato dallo scontro a distanza fra l’ex presidente del Consiglio e Beppe Grillo, avventuratosi nel suo stile ad attribuire a Renzi anche la “rottamazione” del babbo, avendone auspicato una pena raddoppiata se dovesse risultare davvero colpevole di traffico d’influenze illecite e di chissà cos’altro, va registrata e segnalata la beata ingenuità – permettetemi di dirlo – del guardasigilli e candidato alla segreteria del Pd Andrea Orlando. Che, appoggiato nella sua scalata anche da Gianni Cuperlo, ha auspicato che il congresso del suo partito si svolga senza essere condizionato dalle indagini targate ormai Consip.
Sant’uomo benedetto, come fa Orlando a nutrire una simile speranza? D’altronde lui stesso ha mostrato di rendersi conto di una situazione ormai incontenibile quando ha lamentato la campagna congressuale del suo concorrente Michele Emiliano: il governatore pugliese e magistrato in aspettativa che si è conquistato il diritto di entrare nelle indagini Consip come testimone nel momento in cui ha rivelato al Fatto Quotidiano di Marco Travaglio – e a chi sennò? – di avere conservato nel suo telefonino messaggi di più di due anni fa utili a far valutare dagli inquirenti i rapporti fra l’allora sottosegretario Lotti, l’imprenditore Carlo Russo e il papà di Renzi, tutti adesso indagati.
Con un attore delle primarie e del congresso come Emiliano, peraltro concorrente diretto di Orlando nella raccolta dei voti più antirenziani, non è soltanto ingenua ma velleitaria la speranza di mettere la corsa alla segreteria del Pd al riparo dalla vicenda giudiziaria che ha invaso le prime pagine dei giornali.
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Non meno ingenuo – consentitemi anche questo – è il tentativo del buon Eugenio Scalfari, in quella che lui chiama “la nota” domenicale ai lettori di Repubblica, di raccomandare agli esagitati cultori delle indagini Consip e dei suoi possibili riflessi politici una lettura filosofica. Che dovrebbe partire addirittura da Aristotele, il primo ad individuare la corruzione nella confusione fra interessi generali e interessi personali durante l’esercizio del potere, e il meno lontano Camillo Benso di Cavour, vigilantissimo in questo campo e indicato già altre volte a Matteo Renzi come statista da studiare e imitare.
In ogni caso, abituato non foss’altro per ragioni anagrafiche a vederne di tutti i colori, e a scriverne, Scalfari ha riconosciuto che l’Italia sul crinale della corruzione non è poi messa così male perché “ci sono le Americhe, la Russia post-sovietica di Putin”, ma anche quella precedente forse non scherzava, “il Medio Oriente, la Cina, i Balcani, la Turchia, l’Africa, l’Australia”.
Credo che di tutto questo il fondatore di Repubblica, di sua iniziativa o sollecitato, abbia avuto occasione di parlare anche con l’amico più illustre che ha, e di cui va giustamente orgoglioso: Papa Francesco. Che della corruzione ha per missione una visione universale.

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