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Il vuoto geografico della globalizzazione, l’incertezza radicale e il Dio di Cartesio

“Negli ultimi vent’anni stiamo vivendo una crisi sistemica degli Usa intesi come polo mondiale, e della loro capacità di intervenire immediatamente. Il termine rivoluzione oggi inerisce a globalizzazione, e il concetto di crisi perpetua rappresenta la fine della centralità del sistema americano, come anche del mondo bipolare”. Guardando alle mappe geografiche contemporanee c’è chi, come Alessandro Ricci, autore del volume edito da Exòrma “La geografia dell’incertezza. Crisi di un modello e della sua rappresentazione in età moderna”, presentato ieri mercoledì 4 aprile presso l’Istituto Luigi Sturzo di Roma, ravvisa la presenza di un “senso della globalizzazione interrotta”.

IL LIBRO DI ALESSANDRO RICCI “LA GEOGRAFIA DELL’INCERTEZZA” (EXÒRMA)

Questo presupponendo che se si ripercorre a ritroso la genesi del concetto di globalizzazione si finisce dritti all’inizio dell’età moderna, dove si nota che è proprio l’incertezza a sancire questo passaggio. In quella nascita della modernità che coincide con i viaggi di esplorazione e che consiste nel superamento delle verità assolute del passato. E in cui dalle certezze scientifiche si passa all’incertezza di tutti i modelli di riferimento. Che oggi si configura su tre presupposti, spiega Ricci: “Caos, crisi e rivoluzione”. Ovvero, primariamente, “una mancanza di punti di riferimento geopolitici stabili, capaci di garantire ordine e certezza, come anche di modelli di riferimento interpretativi della realtà”. Che “getta l’uomo di fronte a un bivio, con lo sguardo rivolto verso separazione e indecisione”.

L’INTERVENTO DEL GEOGRAFO FRANCO FARINELLI

In epoca recente poi sono stati gli attentati delle Twin Towers a segnare l’ultimo grande spartiacque: in quei mesi si disse che in un istante venne annullata l’intera distanza tra New York e Beirut. Eventi che segnarono un crinale subito conseguente a un altro momento fondamentale, la caduta del Muro di Berlino. Per avere però una comprensione esaustiva di ciò che riguarda la rappresentazione e la percezione, quindi geografica ma non solo, del mondo di oggi, bisogna fare un salto ancora più indietro e tornare al 1969. Quando “nelle stesse notti in cui l’uomo sbarcava sulla luna, due computer sulla terra cominciavano a scambiarsi informazioni, e lo spazio cominciava a svanire come segno cruciale per il funzionamento del mondo”, ha spiegato il geografo Franco Farinelli, durante il convegno moderato dal giornalista di La7 Giovanni Floris. Da lì, da quando cioè “due computer hanno cominciato a parlare, nessuno ci ha capito più niente”.

LA CONCRETEZZA DELLO SPAZIO E IL MONDO DELL’INCERTEZZA

Se infatti, fino a quel momento, per pensatori come Carl Schmitt “lo spazio è sempre mistico e indefinito”, per i geografi è molto concreto, uno standard misurabile. “L’incertezza è ciò che si avverte nel passaggio da un mondo definito in tavole, costruito nella sua riduzione in mappe, a uno che dobbiamo riconoscere come un luogo”, ha continuato Farinelli. “La tavola e la sfera sono irriducibili, e per quanti sforzi si faccia non si possono mai trasformare l’uno nell’altro. La geometria e la logica del mondo oggi non l’afferiamo più. Lo spazio non interessa, si punta sui luoghi, che sono una misura estensiva di valore”. La differenza con Giulio Cesare è che a quell’epoca la geografia serviva solo per fare la guerra, mentre la modernità ha esteso la logica spaziale a tutti i momenti della città.

“Nel libro si mostra che per risolvere il problema della certezza e dell’incertezza si è dapprima cercato di farlo cartografando la realtà, capendo però alla fine che tutto questo aveva lanciato sul territorio il vero problema: l’impossibilità di riprodurre la realtà sociale rispetto ai modelli cartesiani. La genealogia della cultura moderna è tutta presente in questo passaggio”. E se i ponti che si gettano tra le due fasi storiche sono profondi, non appena vi si guarda sotto si spalanca l’abisso, afferma il professore.

LE PAROLE DEL FILOSOFO GIACOMO MARRAMAO

Tema, quello dell’impossibilità di rappresentare lo spazio contemporaneo in maniera oggettiva, che resta centrale non solo per l’attualità, e in quel caso si parlerebbe di geopolitica, ma per il pensiero del mondo contemporaneo, ha spiegato il filosofo Giacomo Marramao. Perché si entra “nel vivo della rappresentazione impossibile della nostra epoca globale, caratterizzata da termini come incertezza ma anche instabilità”. Concetto afferrato da molti autori conservatori, come Carl Schmitt ma anche Paul Valéry , che segna il passaggio dal paradigma della mappa mundi al theatrum mundi. Che significa cioè entrare in rapporto con una incertezza radicale, dove non si riesce più a distinguere la rappresentazione teatrale dalla realtà. “La certezza cartesiana della modernità scaturisce da una esperienza del dubbio che non è categorico ma radicale e iperbolico. Cartesio si chiede: e se nulla che vediamo, compresi i teoremi della geometria, fossero veri? Per lui però c’era il buon Dio”.

La rappresentazione che il moderno produce non può infatti essere messa “in prospettiva”, ma è “prospettica”, prosegue il filosofo. Perciò lo scenario cambia. “Nel moderno entriamo in uno spazio nuovo, che non è il territorio ma il mare. Nel passaggio dal mare all’area c’è soppressione della distanza, e la chiave dell’egemonia degli Stati Uniti che è fondamentalmente aerea. Ma c’è anche la simultaneità delle relazioni e la soppressione della distanza”. E questo porta anche a pensare che “il novecento non è ancora finito”, chiosa il filosofo. “Tra qualche anno diremo alla politica: benvenuta nel ventunesimo secolo”.

LO STATO MODERNO, LA PAURA E LA FINE DEL NOVECENTO

Se invece si guarda al rapporto con il Medioevo, ciò che va distinto è il sentimento della paura da quello dell’incertezza e dell’insicurezza. “Hobbes vuole frenare il peso enorme del passato, dicendo che dobbiamo trovare una formula politica che ci liberi dalla paura. Che era già presente nel medioevo, ma non nella forma dell’incertezza”. Così la nascita dello Stato moderno, trampolino, in chiave storica, per quella che oggi è la globalizzazione. “Siamo entrati, nella doppia logica del globale, in un ritorno all’antropologia della paura”. E la scoperta perciò dei luoghi, della loro qualità rispetto a una spazialità uniforme, è anche quella dell’identità. “Siamo entrati nel mondo finito, le escatologie che parlavano del tempo si sono realizzate nello spazio, e oggi non si scappa più: i conflitti avverranno in una logica che noi non conosciamo ancora. Ma c’è del metodo nella follia”.

IL COMMENTO DEL LINGUISTA MARCO MANCINI

Ci si chiede perciò se l’incertezza rappresenti solamente una fase storica, oppure si tratta di un intero modello, quindi di un paradigma sistemico. “La crisi come modernità è messa in discussione di tutto ciò che è stabile, tanto del sistema internazionale quanto dei modelli culturali”, ha affermato il linguista Marco Mancini. “Sono caratteristiche della contemporaneità, dove non vi è solo un caos di attori ma una crisi di sistema. E dove il primo degli accusati è lo Stato moderno, col suo tentativo di racchiudere certezze all’interno dei confini: una lente che sembra non più in grado di essere effettiva, in una crisi che mette in discussione l’idea che quando si parla di potere si possa parlare solo di Stato. Basta pensare al terrorismo, e all’incapacità di garantire assoluta sicurezza”.

LO STATO CHE SI RI-TERRITORIALIZZA E L’USO (NUOVO) DEI MURI

Però va anche considerato il fatto che oggi, come numerosi contesti politici dimostrano, lo Stato si ri-territorializza. Ne è un esempio l’uso dei muri, ha spiegato Mancini. Anch’essi “espressione di incertezza, e non più semplici linee di spartizione”. Per Mancini la globalizzazione, contrariamente a quanto spesso appare, è a pieno regime, perché “quando sembra non funzionare correttamente in realtà è proprio lo Stato moderno ad essere in difficoltà, a trovarsi in stato di incertezza”. Facendo assistere a dinamiche nettamente diverse dal passato. “La barriera sembrerebbe a prima vista reificare alla massima potenza la spartizione, il confine tra dentro e fuori. Ma se ne osserviamo la funzione, notiamo che non rispondono più al vecchio concetto di separazione, o di tutela della sovranità assoluta di spazi uniformati sotto il potere statale. Si instaurano confini discrezionali, che chiudono ai migranti ma lasciano aperto ai flussi finanziari. E spesso hanno uno scopo persino più mediatico che reale. La domanda allora è: si tratta di un modo per rassicurare sull’incertezza o per riprodurre la certezza?”.

LE CERTEZZE DELLA CARTA MEDIEVALE, DOVE IL MONDO ERA IL CORPO DI CRISTO

D’altronde, conclude l’autore del libro, basta ascoltare l’Amleto di Shakespeare per vedere che l’incapacità del protagonista di decidere è dovuto proprio al fatto che non possiede più una stella polare. Mentre al contrario “la carta medievale è tutta intrisa di certezze, e tutto ruota attorno a un centro, rappresentato da Gerusalemme, perno della religione cristiana e di tutte le religioni”, chiosa in conclusione Ricci. “La rappresentazione era piena, non potevano essere concepiti spazi vuoti: tutto il mondo era colto dalla mano di Dio, la realtà mondiale era rappresentata come il corpo di Cristo, e la carta era una immane ostia”.

Le carte moderne portano invece un totale cambiamento, in cui si acquisisce una certezza scientifica rappresentativa ma si perdono i riferimenti del passato, stabili e sicuri. “Così si rappresentano spazi vuoti, e tutto ci riporta a un passaggio tra modernità e tempo dell’incertezza. Tra un mondo dove non c’è una distinzione tra realtà rappresentata e quella vissuta”. Mentre oggi tutto è parte di un unico grande meccanismo, che è quello della modernità: “siamo nel post moderno, ma che di fatto è iper-moderno”.

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