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La grande illusione del decreto dignità

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Il decreto dignità approda al Senato. Con ogni probabilità sarà approvato senza colpo ferire. Il caldo di metà agosto non consente battaglie furibonde. Del resto inutili. Quel decreto è figlio di un approccio ideologico che ha offuscato ogni elemento di ragionevolezza. Come se la lotta al precariato potesse divenire appannaggio di una sola forza politica. E non il risultato di uno sforzo collettivo teso, innanzitutto, ad accrescere il ritmo di sviluppo complessivo dell’economia. Venendo meno quest’elemento, resta solo la grande illusione che la legge possa realizzare ciò che il mercato non è in grado di dare.

Eppure la storia qualcosa avrebbe dovuto insegnare. Nelle leggi che regolano il mercato del lavoro contano soprattutto i rapporti di forza che dividono i principali protagonisti. Se l’economia non tira a sufficienza. Se l’”esercito di riserva”, misurato dal numero dei disoccupati, preme sugli stessi occupati. Se questa è la realtà italiana, ben difficilmente l’imperio della legge potrà risolvere la questione. Vi saranno, al contrario, il diffondersi di rapporti collusivi tra chi è alla disperata ricerca di una soluzione individuale e chi non ha fieno sufficiente per impegnarsi stabilmente nell’immediato futuro. Il convergere di due logiche, strettamente legate alla reciproca sopravvivenza. Quella vitalità incomprimibile che nessuno è in grado di arrestare.

Chi ricorda l’autunno caldo degli inizi degli anni ‘70, sa di cosa stiamo parlando. La contestazione operaia fu frutto di un lungo periodo di incubazione, a monte del quale erano le contraddizioni non risolte della società italiana. Gli anni del “miracolo economico” avevano visto il totale dispiegarsi di una logica quasi darwiniana. I vecchi poteri forti dell’industria, tutti legati alla fase del protezionismo, erano stati spazzati via dai nuovi settori collegati con le esportazioni. La Fiat in testa. Un mutamento che si era riflesso sulla composizione stessa della classe operaia: non più quel ceto professionalizzato, che ne rappresentava l’aristocrazia, ma giovani venuti dal Sud con una valigia di cartone e poche cose. Ma pronti a giocarsi la vita nelle nuove roccaforti del triangolo industriale.

Le vaste retrovie dello sottosviluppo meridionale alimentarono per anni l’”esercito di riserva”. Bloccando i possibili aumenti salariali ed il miglioramento delle condizioni di vita all’interno delle fabbriche fordiste. Mentre l’Italia, grazie soprattutto alla fatica delle nuove generazioni operaie e non, si trasformava in una potenza industriale di media potenza. Ma ci vollero anni – ne passarono ben 15 dalla sconfitta della Cgil a Mirafiori alla nascita dello Statuto dei diritti dei lavoratori – prima del grande riscatto sociale. L’autunno caldo non risolse, ovviamente, tutte le contraddizioni della società italiana. Aprì, tuttavia, una fase nuova, chiudendo con le peggiori forme di sfruttamento del passato.

Se si riflette su quello che è stato si possono cogliere le profonde differenze con il presente. A differenza di allora c’è poco da redistribuire. Lo sviluppo economico italiano è da tempo bloccato. La crisi, ovviamente, non ha toccato tutti nella stessa proporzione. Ma alla sofferenza di gran parte del popolo italiano non si può rispondere con una sorta di egualitarismo d’antan. Non ci sono i numeri per supportare una simile strategia. Bisogna solo cercare di produrre meglio e di più, grazie anche ad una diversa politica economica. Lo sviluppo, di per sé, non garantisce la soluzione dei problemi sociali. Ma crea le condizioni materiali, avrebbe detto Marx, affinché, come avvenne con l’autunno caldo, questa prospettiva possa in seguito realizzarsi.

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