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Il decreto Salvini e il ritorno all’ordine politico. Il commento di Ippolito

Ieri è stata una giornata importante per il governo Conte. In mattinata il Consiglio dei ministri ha approvato all’unanimità, con la firma del Capo dello Stato, il Decreto immigrazione, ribattezzato con il nome del ministro dell’Interno.

Al di là dell’enfasi mediatica, si tratta di un atto portante dell’attuale maggioranza, il quale avvia un processo che sarà completato con l’approvazione parlamentare, e che prevede una revisione forte dei rapporti tra lo Stato italiano e gli stranieri. Come i giornali di oggi attestano ampiamente tale iniziativa ha generato e produrrà sicuramente un’accesa discussione tra le forze politiche e gli osservatori.

Quello che colpisce, prima di ogni altra valutazione di merito, è la coerente discontinuità che questa normativa stabilisce con la legislazione vigente, particolarmente libertaria in materia di accoglienza e concessioni di asilo. Inoltre, va sottolineato il giro di vite che viene instaurato in materia di ordine pubblico un po’ a tutti i livelli.

Bisogna annoverare, sebbene sia cosa nota, che le aspirazioni iniziali di Matteo Salvini sono apparse levigate per ora, sia per alcune richieste reclamate da Sergio Mattarella e sia, probabilmente, per le necessarie logiche di coalizione.

Fatto sta che, comunque, siamo davanti ad una svolta metodologica, direi perfino filosofica, che riguarda aspetti costitutivi e fondamentali della nostra convivenza, quali il diritto di cittadinanza, e il rapporto tra libertà personale e ordine pubblico.

Il principio di base è apportare maggiore sicurezza agli italiani e spendere meno in materia di immigrazione. A ciò bisogna aggiungere importanti piani per la lotta alla mafia, alla droga e al racket.

I richiedenti asilo, in specie, dovranno affrontare un iter rigoroso per ottenere la cittadinanza che prevederà uno stop nel caso in cui vi siano condanne anche di primo grado. Come dire: se mancano i requisiti di affidabilità comportamentale, non accoglienza e niente cittadinanza. Tutto ciò per far fronte al crescente fenomeno della criminalità, imbarbarita molto spesso dal fenomeno dell’immigrazione non accertata a livello capillare. La faccenda dei Rom ha ricevuto uno stralcio, sebbene Salvini abbia però affermato che verrà risolta entro la fine della legislatura. In ogni caso viene fatto valere il concetto giusto che la conoscenza delle persone è essenziale per la sicurezza delle singole comunità, specialmente locali.

Considerevole è l’indicazione del fine cui si aspira: dare razionalità alla riorganizzazione del sistema delle protezioni internazionali europee. Ovviamente tale complesso normativo sarà, come detto, sottoposto al vaglio del Presidente della Repubblica, del dibattito parlamentare e della Corte Costituzionale, che apporteranno le loro legittime emendazioni.

Non sono mancate subito molte critiche, com’è ovvio. Si va dalle posizioni più estreme che tacciano il Decreto di razzismo, a quelle più temperate che ne denunciano la regressività in materia di diritti umani, a quelle esclusivamente legali che ne evidenziano l’incostituzionalità, per finire a distinguo interni alla maggioranza su singoli aspetti, che germoglieranno prevedibilmente in seguito.

La prima osservazione di merito è che questa linea restrittiva gode di un esteso plauso nell’opinione pubblica. Vi è, infatti, diffusa la percezione di un grado crescente di insicurezza, unito alla certezza che tale status dipenda dall’incontrollata gestione dell’immigrazione. È difficilmente contestabile, d’altronde, che gli atti efferati sono direttamente proporzionali al livello di emarginazione e di incivilimento. Accogliere senza formare e valutare chi c’è è un male e significa investire sul decadimento delle condizioni di vita degli abitanti più poveri, specialmente nelle aree più disagiate.

Ma vi è, in secondo luogo, un’ulteriore e più essenziale punto che riguarda il valore e il senso delle istituzioni pubbliche, nonché la ragione stessa delle forze di sicurezza. È folle pensare che lo Stato sia qualcosa di più che l’organizzazione politica di un popolo, il cui carattere distintivo è la cittadinanza. Ritenere che la politica nazionale debba occuparsi di tutto è una contraddizione in termini, associata sempre ad un principio malsano di non responsabilità diretta delle singole istituzioni. La forza di uno Stato sta nel fatto che il bene comune sia delimitato e resti tale. Perciò affermare una restrizione quantitativa degli ingressi è la logica conseguenza di una valida e congruente definizione dell’orizzonte preciso e del grado di autorità limitato che la politica nazionale possiede nell’adempiere i suoi doveri, di fronte ai trascendenti problemi complessivi dell’intera umanità.

Come un genitore è responsabile, in primis, dei suoi figli, così uno Stato è responsabile, anzitutto, dei propri cittadini. Pensare che la politica di una nazione debba farsi carico di tutti i mali del mondo è contraddittorio e sbagliato, equivalendo a dire che, in realtà, non debba occuparsi bene proprio di nulla. Per fare diversamente, dovremmo avere prima uno Stato unico mondiale, cosa utopica e ridicola, oltre che assurda, illusione confermata, per altro, anche solo dalle difficoltà in atto nell’instaurare persino un circoscritto ordine continentale di tipo europeo.

Di qui viene il problema interpretativo che è giusto dare non solo a questa legge, ma alla nuova tendenza cosiddetta sovranista in grande espansione. È chiaro che ogni persona umana ha diritti generali che derivano dalla sua natura, e non dalla sua cittadinanza. È ovvio che tali diritti appartengano ad una sfera superiore rispetto alla politica. Ma è altrettanto giusto che tali diritti non possano ricadere esclusivamente sulla politica particolare di uno Stato, e che la politica nazionale non debba diventare una specie di succursale dell’Unicef, ignorando i propri cittadini.

Di qui viene, al contempo, la legittimità del principio di auto tutela di uno Stato, riguardante cioè la sua parte di umanità, senza però che questa legittimità sia in contrasto obbligatoriamente con prerogative più estese e universali che non gli competono tuttavia direttamente.

Anzi, ragione vuole che si debba distinguere prima di unire. Per un cattolico, ad esempio, ogni essere umano gode di una dignità assoluta. E la Chiesa universale ha come compito assoluto testimoniare Cristo nel mondo: quindi, è altrettanto evidente che il Papa non possa fare un discorso assimilabile a quello politico, o a quello di un’altra confessione persino cristiana, che è di tipo particolare. Allo stesso modo le Nazioni Unite, che rappresentano politicamente, almeno potenzialmente, tutti gli Stati del mondo, non devono parteggiare per uno di essi, ma devono occuparsi della pace mondiale, cioè dei diritti civili e umani di tutti gli esseri umani. Progressivamente si arriva così ai singoli Stati nazionali e alle loro prerogative. Essi non sono Chiese, non sono organismi internazionali, ma comunità ordinate particolari e salde: il loro compito pertanto è il bene esclusivo di una singola collettività di cittadini.

Discernere, d’altronde, le diverse proprietà di ogni istituzione non significa per nulla contrapporre l’una all’altra, ma bilanciarne i campi di attribuzione tra loro, nei reciproci e relativi interessi pubblici di ciascuna realtà.

Considerare, in definitiva, che lo Stato sia un organismo umanitario è contraddittorio, al pari di come risulta essere inaccettabile una visione teocratica che attribuisca ad una chiesa il compito politico, a essa non spettante, di guidare una nazione o il mondo intero. In ambito cristiano è questo il limite più grande dell’Agostinismo politico, secondo il quale lo Stato sarebbe legittimo solo se cristiano, e la forza opposta del Tomismo che fonda invece lo Stato sulla natura dei popoli e non sulla Salvezza soprannaturale che li trascende.

Uno Stato, in fin dei conti, è una comunità politica naturale e particolare, generata dalla storia, che ha come fine tutelare la sicurezza e garantire la conservazione di una singola comunità. Perciò lo Stato non deve essere tiranno e non deve trasformare la sua missione in un messianismo universale, magari ateo o laicista come fu il Comunismo Sovietico, e men che meno deve confondersi con la Chiesa Cattolica, che ha un altro ordine e un’altra finalità superiore, di tipo spirituale.

In sintesi, questo decreto è apprezzabile molto più per la chiarezza logica e politica che introduce che per gli effettivi risultati che raggiungerà, i quali saranno sicuramente annacquati dai tanti vincoli politici e legali che verranno introdotti in itinere. Se non altro questa legge elimina una falsa logica dell’assurdo, di ascendenza marxista, privilegiando invece un più coerente ragionamento sulle diverse esigenze identitarie e sui diversi doveri che ogni soggetto pubblico e privato ha in se stesso: partendo dai diritti personali, vi sono prima i diritti familiari, poi i diritti comunitari, quindi i diritti religiosi e infine i diritti civili e i diritti universali.

Parlare di umanità ha un senso, in buona sostanza, purché si parli delle persone concrete: soggetti umani, la cui vita spirituale è indissociabili dalla propria realtà materiale, e dai diritti e i doveri interni alla propria condizione temporale. Parlare di umanità, viceversa, non ha senso se con tale idea si intende disorganizzare e distruggere la peculiarità differenziata delle condizioni di vita nazionali e le identità culturali dei singoli popoli.

Essere cittadino di uno Stato, infatti, è far parte, involontariamente e per natura, di una medesima comunità; ed è impossibile estendere indiscriminatamente la cittadinanza, magari con un artificio di massa, senza prima distruggere la comunità stessa, la sua identità, e l’ordine inviolabile di uno Stato.

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