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Tutti in Cina (Italia inclusa). Pechino risponde così alle accuse di neo colonialismo

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Il sito dell’ambasciata cinese in Italia riporta le dichiarazioni della portavoce del ministero degli Esteri di Pechino, Hua Chunying, che potrebbero servire anche da rassicurazione agli italiani, che in questi giorni aspettano di vedere i risultati di una doppia missione del governo di Roma in Cina, con l’obiettivo di riportare a casa investimenti in infrastrutture, aziende, debito.

Val pena ricordare che il rapporto Roma-Pechino è in realtà già solidissimo, tanto che uno studio pubblicato nel 2017 dal tedesco Mercator Institute for China Studies e dalla società di consulenza Rhodium Group, dal 2000 l’Italia è stata al terzo posto, dopo Gran Bretagna e Germania, tra i Paesi Ue ricettori investimenti cinesi; la quota è di 12,8 miliardi di euro.

Hua parte commentando un servizio della Cnn in cui la rete televisiva americana spiega come gli investimenti delle imprese cinesi in Africa abbiano migliorato le infrastrutture locali e creato enormi opportunità di lavoro per la popolazione locale. La portavoce risponde a una domanda dei giornalisti dicendo che la “copertura è obiettiva, imparziale ed equilibrata”. Forse dietro c’è anche una frecciata alla Casa Bianca, che guida il confronto a tutto campo Usa/Cina e di solito considera la Cnn uno dei media pessimi “nemici del popolo” che diffondono informazioni false sull’amministrazione Trump (in realtà l’unica pecca è probabilmente l’obiettività con cui affronta la presidenza Trump senza asservirsi, ndr); ma sicuramente c’è qualcosa di più profondo.

La Cina è accusata di giocare una sorta di imperialismo entrando, col potere dei soldi, in altri stati: quanto fatto in Africa, secondo queste accuse, è la pistola fumante. Con progetti e investimenti, anche nell’ambito del programma infrastrutturale e geopolitico Obor, Pechino si sarebbe garantito il controllo politico (in una sorta di ricatto) di certi paesi. Non è così, dice la Cina: poco prima della partenza degli italiani, andati in viaggio di stato anche per cercare di migliorare l’interazione tra Cina e Italia sull’Africa e sfruttarne opportunità (come ha dichiarato il sottosegretario al Mise, Michele Geraci, era stato l’ambasciatore a Roma Li Ruiyu a dare rassicurazioni sul FairPlay cinese in un’intervista all’Agi.

Il sottosegretario Geraci ha detto di pensare che aiutare la Cina negli investimenti africani potrebbe essere comodo per l’Italia anche in ottica immigrazione: Pechino darebbe “dignità e posti di lavoro”, con la Cina che contribuirebbe a fermare “il bighellonaggio e la delinquenza”. La CNN spiega in quel servizio che piace a Pechino (e forse piacerà anche all’uomo del governo italiano) che un rapporto McKinsey dello scorso anno ha esaminato più di mille società cinesi in otto paesi africani, rilevando che in media l’89 per cento dei loro dipendenti era africano. Diversi milioni di posti di lavoro africani sono stati creati dalla Cina nel continente.

In questi giorni, il segretario delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha detto che la stabilità globale, lo sviluppo e la pace, dipendono dal successo con l’Africa e la cooperazione con la  Cina è indispensabile per il successo africano. Guterres parlava ai giornalisti cinesi prima della partenza per il Forum on China-Africa Cooperation (Focac), ossia il momento di incontri e dibattiti sulla partnership con i paesi africani ospitato dai cinesi che si svolgerà a Pechino il 3 e il 4 settembre.

Hua ha affrontato pure una questione collegata: quella che il Washington Post ha chiamato “la trappola del debito cinese”, facendo esempi concreti, dal caso del porto cingolose di Hambantota, al Pakistan: “La Cina offre prestiti preferenziali al Pakistan a un tasso di circa il 2%, molto al di sotto del tasso offerto dai paesi occidentali“, ha detto la portavoce, ricordando che solo il 10 per cento del debito estero pakistano dipende dalla Cina (anche se non poco in realtà, ndr).

Tuttavia qualche giorno fa, il segretario agli Esteri filippino, Alan Peter Cayetano, ha dovuto annunciare alla commissione finanziaria del Senato che le Filippine non cadranno nella trappola del debito perché la dipendenza si ferma all’1 per cento del debito, nonostante uno studio di Harvard dà Manila tra gli stati a rischio nell’ambito di progetti di cooperazione sulle infrastrutture, come la ferrovia di Mindanao (secondo Harvard anche Gibuti, Kenya, Pakistan, Sri Lanka, Laos, Myanmar, Malesia, Papua Nuova Guinea, sono in condizioni di alta vulnerabilità). E martedì scorso il neo primo ministro malaysiano, Mahathir Mohamad, ha avvertito la Cina dei rischi di un “nuovo colonialismo”, parlando in faccia al suo omologo cinese, Li Keqiang. La Cina sfrutta la “trappola del debito” per far leva sui suoi progetti geopolitici (vedi Obor, la Nuova Vis della Seta).

“Etichette”, le ha chiamate l’ambasciatore cinese in Italia: “Una serie di etichette, dalla trappola del debito, all’ascesa geopolitica, allo sfruttamento delle risorse. Ci tengo a sottolineare che tra i nostri partner non ce n’è uno che è entrato in una crisi del debito a causa della cooperazione con la Cina”. Dice la portavoce agli Esteri cinese: perché quando sono gli occidentale a offrire i soldi in Africa o altrove quel denaro è una torta dolce e quando sono i cinesi si tira in ballo la trappola del debito?

 

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