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Siria e Libia, due facce della stessa medaglia. Al Sayed spiega perché

Il “vuoto strategico” di fronte al quale si trova il mondo arabo, e così definito, ancora prima del 2011, dal principe saudita Saud al-Faisal, ha aperto nel corso del tempo la strada alle interferenze di molte organizzazioni regionali, internazionali e terroristiche per assicurarsi il controllo del territorio. È ormai un dato di fatto. Il filosofo e scrittore libanese Radwan al Sayed, in un’analisi pubblicata su Al Arabya ha ricostruito in modo preciso il corto circuito post-primavere arabe, in cui sono precipitati la maggioranza dei Paesi della regione. E oggi, in particolar modo e per ovvie ragioni, a preoccupare di più sono la Libia e la Siria.

LA CRISI LIBICA

Che la Libia vivesse un momento di grande tensione è ormai alla luce del sole. Lo scrittore libanese spiega che se l’errore primario è da ricondurre, in primo luogo, all’intervento internazionale durante i disordini di sette anni fa, la soluzione per il risanamento della crisi risiederebbe principalmente nel sostegno arabo all’esercito nazionale libico e al parlamento. Le milizie che, nonostante la presenza del governo di accordo nazionale, hanno continuato a controllare la maggior parte della Libia occidentale, infatti, non hanno esitato e non esiteranno in futuro a volere di più, iniziando a scontrarsi tra di loro in scontri fratricidi. L’unico modo, dunque, per liberarsi di questo “vuoto strategico”, sarebbe attraverso l’intervento dei decisori arabi, come è già accaduto nello Yemen. Praticando, allo stesso tempo, l’influenza nelle regioni colpite dai disordini.

E le forze internazionali? Al Sayed in questo caso è categorico: “Non si occupano delle milizie, ma della disputa tra Francia e Italia”. In ogni caso, il ruolo italiano nella regione libica fa ormai da perno a una situazione incandescente. Il sindaco di Sebha, nel sud del Paese, in un’intervista a Nova, fa appello all’Italia per ricevere supporto e aiuto: “Siamo delusi da quanto accaduto dopo la firma degli accordi di Roma dello scorso anno. Speravamo potessero risolvere i nostri problemi”, ha affermato.

Allo stesso tempo, sempre riguardo all’Italia, Abdelrahman al Shater, membro dell’Alto Consiglio di Stato Libico, ha sottolineato come piegarsi alle pressioni del generale Khalifa Haftar, comandante dall’autoproclamato Esercito nazionale libico (Lna) e uomo forte della Cirenaica, “danneggerebbe la reputazione dell’Italia, le relazioni tra i due paesi e i grandi sforzi dell’ambasciatore” italiano a Tripoli, Giuseppe Perrone.

IL DRAMMA DELLA SIRIA

E se la situazione a Tripoli e nella Libia occidentale è terribile, la realtà in Siria è ancora peggio. “Per molti anni la Siria è stata divisa tra i partiti internazionali (Russia, Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna), quelli regionali (Iran e Turchia), e i soldati di Assad e le milizie settarie. Dal 2015 la forza aerea russa è intervenuta per aiutare Assad, costruendo enormi basi e commettendo orribili massacri”, ha spiegato al Sayed. E oggi, infatti, ci troviamo a fare i conti, tutti con quello che sta accadendo a Idlib.

Quest’ultima nel corso degli anni è diventata una vera e propria fucina di rifugiati e sfollati provenienti da altri luoghi del Paese. E ora , trovandosi al centro di un’ultima offensiva del regime, la questione di fondo diventa proprio questa. Dove andrà questa gente, già stremata, già isolata, sola? L’unica via di fuga sarebbe lil confine turco, membro del triumvirato di Astana insieme alla Russia e all’Iran, che però ha già accolto 3.5 milioni di sfollati e probabilmente non sarà disposta ad accoglierne altri.

La soluzione, in questo caso, è più complessa da trovare e non sarà di certo la caduta di Idlib a risolvere la situazione. E se per la Libia era necessario l’intervento degli attori arabi, in questo caso il filosofo libanese indirizza la sua attenzione sulle influenze internazionali, in special modo degli americani e dei russi. Mosca, però, secondo al Sayed, dovrebbe fare a meno dell’aiuto dell’Iran e di Ankara, che in questo caso, restano inaffidabili perché compromessi da troppi interessi personali.

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