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Le navi russe restano nel Mediterraneo. E non va bene

“Perché le navi russi sono ancora nel Mediterraneo, davanti alle coste della Siria, nonostante il ministero della Difesa di Mosca abbia annunciato giorni fa che l’esercitazione per cui erano state mandate laggiù si è conclusa?”, si chiede il portavoce del Pentagono, Eric Pahon, con i giornalisti della CNN.

La domanda è provocatoria: Pahon parla della presenza navale russa e allude alle operazioni su Idlib, l’ultima roccaforte delle opposizioni siriane su cui i governativi stanno avanzando. Quando Mosca le scorse settimane ha annunciato le esercitazioni su quel tratto di Mediterraneo orientale – war game che si sono svolti dal primo al 9 settembre – è stata subito tirata in ballo la possibilità che poi, una volta concluse le manovre, il raggruppamento navale spostato attraverso il Bosforo sarebbe servito per dare sostegno alle operazioni del regime di Bashar el Assad, alleato strategico russo.

“Ci sono più di due dozzine di navi (e 34 aerei, ndr), diverse equipaggiate con missili Kalibr, piuttosto vicine alle coste della Siria”, dice Pahon: si trovano a una distanza ottimale per colpire il territorio siriano (è abbastanza chiaro che non siano là in crociera). Con ogni probabilità daranno supporto navale all’attacco lealista contro i ribelli, operazione decisiva che potrebbe portare Assad al massimo controllo possibile sul territorio – perché la fetta settentrionale al momento in mano ai curdi e quella centro-orientale in cui ancora sono in corso le operazioni contro il Califfato sono due dossier a sé stanti.

Anche la Nato è preoccupata dalla situazione tra le acque – sensibili per ragioni geopolitiche e interessi economici legati ai giacimenti presenti – del Mediterraneo orientale. Ufficiali dell’Alleanza Atlantica fanno sapere che i mezzi navali russi sono monitorati sul posto, a distanza di sicurezza, da unità olandesi, greche, canadesi e spagnole.

La situazione attorno a Idlib è sempre più tesa: nelle ultime ore si sono alzate denunce (firmate tra gli altri dagli White Helmets siriani e dalla Union of Medical Care and Relief Organizations americana) secondo cui gli attacchi aerei assadisti hanno colpito tre edifici utilizzati dai servizi medico-sanitari locali. L’Ufficio degli Affari umanitari della Nazioni Unite ha pubblicato un report in cui scrive che “a settembre numerosi attacchi a infrastrutture civili, compresi ospedali e scuole, nella Siria nordoccidentale sono stati segnalati finora”.

È una tattica brutale, ma già vista: l’attacco, fuori legge, contro certe strutture serve a fiaccare la resistenza. Senza assistenza sanitaria si è costretti alla resa: schema della stesso tipo è stato utilizzato dal regime siriano con le scorte di cibo, assedi che hanno costretto i ribelli circondati a soffrire la fame, col fine di fiaccarne il corpo e l’animo, costringendoli alla resa; e la pressione psicologica creata dal fronte navale russo può rientrare in questo schema con cui scoraggiare la resistenza ribelle.

Nei giorni scorsi, mentre il segretario generale dell’Onu chiedeva di “evitare un bagno di sangue” (“La lotta al terrorismo non assolve le parti in conflitto dei loro principali obblighi ai sensi del diritto internazionale”, ha detto Antonio Guterres), la rappresentante americana al Consiglio di Sicurezza, Nikki Haley, è tornata ad ammonire “Siria, Russia e Iran che se continueranno sulla strada che stanno percorrendo, le conseguenze saranno terribili”. Washington da giorni sta avvisando il clan governativo che il superamento di certe linee rosse potrebbe portarsi dietro la risposta militare occidentale.

 

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