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È la finanza il tallone d’Achille del regime venezuelano. Ecco perché

Com’era previsto, Nicolás Maduro sta andando avanti con l’utilizzo della criptomoneta Petro, nonostante le avvertenze della comunità internazionale. Il presidente del Venezuela ha annunciato che la moneta virtuale sostenuta dal governo (e vietata dagli Stati Uniti per transazioni finanziarie e commerciali) sarà utilizzata nelle convenzioni internazionali a partire dal 1° ottobre. Diventerà, quindi, un mezzo per lo scambio di merci, l’acquisto e la valuta convertibile in tutto il mondo, secondo l’annuncio ufficiale di Maduro.

Il Venezuela è il primo Paese che lancia sul mercato una criptomoneta (il cui principio è proprio la decentralizzazione) e ha assicurato che la stessa sarà sostenuta dalle riserve petrolifere venezuelane. Le vendite di Petro sono iniziate a marzo e hanno un tasso di circa 60 dollari. Mentre l’amministrazione del presidente Donald Trump ha prontamente vietato l’uso di Petro a cittadini e imprese americane, e sul mercato statunitense, Turchia e Russia figurano tra i primi acquirenti della moneta virtuale.

Chi ha recentemente ridato ossigeno al regime di Maduro con denaro reale è la Cina. Negli ultimi 10 anni, la Cina ha approvato circa 50 miliardi di dollari, secondo il Fondo Cinese, per sostenere l’economia venezuelana, in totale collasso. Il governo venezuelano paga questi salvataggi con la produzione petrolifera (notevolmente ridotta dal 2014). Dal 2007 la quota era di 100mila barili al giorno, mentre dal 2016 sono 500mila barili al giorno.

Più che un intervento militare (come velatamente propongono il senatore repubblicano Marco Rubio e il segretario dell’Organizzazione di Stati Americano, Luis Almagro), forse il regime venezuelano andrebbe colpito proprio nelle tasche. In un articolo pubblicato da Bloomberg, Shannon O’Neil, senior fellow per l’America latina al Council on Foreign Relations di New York, respinge qualsiasi ipotesi di intervento militare in Venezuela da parte degli Stati Uniti, argomentando in maniera tecnica gli effetti negativi di questa misura. “Il Venezuela non è Grenada o Panama, i due paesi latinoamericani invasi dagli Stati Uniti durante gli ultimi giorni della Guerra Fredda – ricorda O’Neil -. Ha il doppio delle dimensioni dell’Iraq, con una popolazione solo leggermente più piccola, e si trova sull’orlo del caos. Qualsiasi invasione richiede preparativi su scala simile”.

Certo, questo non significa che non c’è nulla da fare. Secondo l’analista, la tragedia che vive il Venezuela sta provocando danni non solo ai venezuelani, ma lacera il tessuto economico, sociale e politico della regione. “Invece di spingere per misure militari anacronistiche e controproducenti – sostiene O’Neil – i vicini del Venezuela dovrebbero prendere dure ma necessarie misure diplomatiche, finanziarie e umanitarie per ottenere un cambiamento economico e politico e un miglioramento delle sorti collettive del continente”.

Ha concluso dicendo che “la regione deve andare oltre la retorica e seguire gli Stati Uniti, Unione europea, Canada, Svizzera e Panama nel sanzionare i leader del Venezuela, congelando i loro conti bancari, rendendo la vita molto più difficile ai criminali e gli oppressori che guidano il Venezuela oggi”.

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