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Perché l’opzione nucleare cinese sul tesoro americano non è poi così valida

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La Cina ha “un’opzione nucleare” contro gli Stati Uniti, spiegava in un’analisi il fondista finanziario del New York TimesAndrew Ross Sorkin: i cinesi hanno in mano un trilione di dollari di debito pubblico americano, una cosa che dà a Pechino maggiore “leverage“, leva, nella guerra commerciale. E se i cinesi dovessero decidere “di scaricare sul mercato” i titoli del Tesoro degli Stati Uniti e dovessero farlo con dichiarazioni pubbliche, cosa potrebbe succedere?

È uno scenario spaventoso, potrebbe causare grosse conseguenze, ma è lo stesso Sorkin a dire che è improbabile, anche perché, spiega Gwynn Guilford, che si occupa di economia globale per il sito Quartz, non è detto che sia una catastrofe per gli Stati Uniti. Anzi. Se “la Cina si scarica dei suoi buoni del Tesoro, potrebbe favorire due dei punti chiave di [DonaldTrump: ridurre il Dollaro contro lo Yuan, il che a parità di condizioni significa comprimere lo sbilancio commerciale, e darebbe alla Fed motivo per bloccare il rialzo dei tassi”.

A tutti gli effetti, la Cina è una delle banche degli Stati Uniti, ossia una delle entità che comprando titoli di stato dà i soldi per permettere le attività del bilancio federale americane (è il più grande detentore straniero di buoni del Tesoro, seguito da Giappone, Irlanda, Brasile e Regno Unito). Ma la Cina non ha nel corso degli anni deciso di acquistare titoli americani per arrivare a un certo momento a giocare la carte del “vi mandiamo in bancarotta”. Per Pechino stipulare dei buoni del tesoro è stato “uno strumento cruciale della sua strategia di sviluppo economico”, scrive Guilford.

Per mantenere lo yuan in rialzo rispetto al dollaro durante i suoi anni di boom – cosa che altrimenti avrebbe danneggiato il suo settore di esportazione – la Banca popolare cinese ha dovuto scambiare la sua valuta coi biglietti verdi e per farlo ha dovuto acquistare buoni in dollari. I Treasury, i Btp statunitensi, sono l’unico mercato grande e abbastanza liquido per assorbire il volume degli acquisti in dollari richiesti dalla Cina per mantenere lo yuan a buon mercato, scrive Quartz. Acquistarli non serve a ottenere profitti sul rendimento (che è basso perché l’economia americana è forte), ma a spingere l’export, forza motrice dell’economia cinese.

Dall’acquisto di titoli all’inizio dei Duemila, lo sbilancio commerciale tra Stati Uniti e Cina – che Trump detesta – è cresciuto in serie quasi esponenziale. E lo yuan “artificialmente più debole comporta un dollaro artificialmente più forte”: l’acquisto di titoli americani ha dunque comportato un aumento del surplus commerciale (è questo il genere di manipolazione valutaria che Trump attacca come una delle pratiche scorrette che stanno portando l’economia cinese in testa al mondo, questione inconcepibile per l’America che vuol mantenere un ruolo di leadership globale, ma su cui non ha molti strumenti di contrasto).

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Il debito acquistato dalla Cina è dunque il costo che Pechino ha pagato per mantenere alto lo sbilancio commerciale. Già per questo Pechino non ha troppo interesse nel vendere, ma dovesse farlo? Come nota anche Sorkin, citando l’economista Brad Setser, la Federal Reserve americana potrebbe essere in grado di contrastare questa mossa. La banca centrale statunitense, finita sotto l’attacco del presidente negli ultimi giorni perché ha riavviato l’attesa politica del rialzo dei tassi del denaro, “è l’unico attore al mondo che può acquistare più di quanto la Cina possa mai vendere”, analizza Setser.

La forza potrebbe essere proprio nel fatto criticato da Trump, il ciclo di rialzo dei tassi (gli investitori si aspettano che la Fed li aumenti un paio di volte nel prossimo anni): le percentuali sui Treasury statunitensi sono in genere influenzati da quanto gli investitori si aspettano che la Fed innalzi i tassi del mercato, spiega Guilford, dunque il direttore della Fed Jerome Powell potrebbe contrastare un eventuale (e improbabile, si ripete, ndrselloff cinese segnalando che prevede di rallentare l’aumento.

Per altro, non è la prima volta, dovesse succedere: nel 2011 e nel 2016 la Cina aveva già interrotto l’acquisto di titoli americani, e come dice Guilford, i mercati “hanno sbadigliato”, ossia non c’è stato nessun sconvolgimento. La Cina sta attualmente cercando di attenuare l’impatto delle tariffe statunitensi e di compensare il rallentamento della crescita con una politica monetaria più flessibile, e la vendita di titoli del Tesoro vanificherebbe questi sforzi.

In definitiva, la vendita di titoli americani aumenterebbe il valore dello yuan, e questo rafforzerebbe gli effetti dei dazi intaccando la competitività della Cina senza affossare l’America. Conseguenze che si scontrerebbero in modo clamoroso con i grandi progetti del presidente cinese, Xi Jinping, come la Nuova Via della Seta, l’enorme piano geopolitico per collegare l’Eurasia attraverso il commercio da e per Pechino.

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