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L’Italia resta al palo. La Caporetto nei confronti dell’Europa spiegata da Polillo

Conclusione inevitabile dopo settimane di scontro al color bianco, in cui nessuno dei protagonisti ha avuto l’accortezza di rispettare il bon ton delle regole diplomatiche. Tra insulti e minacce. Pollice verso e procedura d’infrazione per deficit eccessivo e violazione della regola del debito. Due settimane ancora concesse dalla Commissione europea per introdurre nella manovra quelle modifiche che, nessuno della maggioranza, ha intenzione di fare. Giuseppe Conte incontrerà Jean-Claude Juncker per spiegare ancora quello che il governo ha in testa. Come se non bastassero le centinaia di pagine già dedicate all’argomento, in cui ogni particolare è stato vagliato e pesato. Non aspettiamoci molto. “La guerra continua”: come annunciò il maresciallo Badoglio in quel drammatico 8 settembre del 1943.

Negli annali della politica estera italiana, la supponenza del proprio ruolo o l’assopimento risultano essere stati gli ingredienti fondamentali di una visione. Rispetto meccanico delle regole vs la manifesta loro trasgressione. Alla base di tutto la debole percezione dell’interesse nazionale. Che è cosa ben diversa dal sovranismo e dal populismo. Bisogna partire da qui per capire la nuova Caporetto nei confronti dell’Europa. E la dura reazione che ne è seguita.

Ci si può consolare con il fatto che altri Paesi erano incorsi nella stessa avventura. Ma è una giustificazione talmente debole da risultare inesistente. Oggi l’unico Paese a soffrine le conseguenze è la Spagna. Ma la cura imposta a Madrid è poca cosa rispetto a quel che potrà capitare al nostro Paese. Come mostra del resto il diverso andamento degli spread sui titoli di Stato: oltre 300 punti base contro un valore che è meno della metà.

La Spagna, ma anche la Francia o la stessa Germania, negli anni passati hanno passato le stesse traversie, ma la reazione della Commissione e dello stesso Consiglio europeo è stata sempre l’indulgenza. Un po’ a causa dei cattivi andamenti del ciclo economico generale, ma soprattutto perché le sottostanti politiche economiche consentivano di temperare il giudizio negativo su un deficit che aumentava. Necessario per rendere più fluide le sottostanti riforme di carattere strutturali.

Durante il governo Schroeder, ad esempio, il deficit tedesco superò il 3 per cento. Ma, intanto, Peter Hartz realizzava quelle importanti riforme del mercato del lavoro, nel segno della flessibilità, che negli anni successivi avrebbero consentito al Paese di conquistare il suo primato industriale a livello globale.

Diverso, ma ugualmente significativo il caso spagnolo. Qualche anno fa il deficit delle sue partite correnti oscillava intorno al 10 per cento del pil. Oggi quel deficit si è trasformato in un surplus dell’1 per cento. A dimostrazione dei successi conseguiti da una politica economica che non è stata certo tenera nei confronti dei ceti più deboli della società spagnola. Ancora oggi il suo tasso di disoccupazione è una volta e mezzo quello italiano. Ma ciò non ha impedito di mantenere dritta la barra del timone.

Ed ecco allora un primo elemento che giustifica la severità della Commissione europea e l’isolamento italiano nei confronti di tutti gli altri partner europei. La congiuntura internazionale è nettamente migliorata rispetto al passato. Nonostante i rischi di un possibile rallentamento, gli altri Paesi crescono, l’Italia resta al palo. Ne deriva che se questo si verifica, le ragioni vanno cercate al suo interno. Chi è causa del suo mal, pianga sé stesso. Soprattutto non scarichi su altri le proprie responsabilità.

L’Italia poteva seguire la strada percorsa dalla Spagna o dalla Germania? Questo è l’interrogativo che resta sullo sfondo. Le condizioni oggettive c’erano tutte. Avrebbe potuto sostenere ch’era necessario assorbire progressivamente il surplus delle partite correnti della propria bilancia dei pagamenti: 50 miliardi all’anno, più del 2,5 per cento del pil. Molto più del deficit maturato negli esercizi precedenti. L’obbiettivo doveva essere quello di premere sugli investimenti, per via diretta o indiretta, al fine di dare uno sbocco a quell’eccesso di risparmio che prende la via dell’estero. In passato quest’obiettivo era garantito dai controlli amministrativi sui movimenti di capitale. Oggi la via maestra è quella di creare occasioni d’investimento, riducendo ad esempio il carico fiscale che grava sulle imprese e sulle famiglie. E, al tempo stesso, realizzare con tempestività gli investimenti della Pubblica Amministrazione.

Nulla (o molto poco) nella “manovra del popolo”. Al contrario la lettura della Commissione è di segno opposto. Una controrivoluzione che annulla del tutto i faticosi e lenti progressi portati avanti, in precedenza, sul fronte delle riforme: dal peggioramento del jobs act, alla modifica della Legge Fornero, che reintroduce, in modo generalizzato, le pensioni d’anzianità a quel salario di cittadinanza. Che ripete i fasti degli 80 euro di renziana memoria. Solo che, allora, si erano almeno rispettati i parametri finanziari, evitando quello sforamento che appare, al tempo stesso, eccessivo e sottovalutato nei conti presentati dal governo italiano. Come testimoniano le analisi di tutte le Istituzioni internazionali. Non solo la Commissione europea, ma l’Ocse ed il Fmi.

Purtroppo Giovanni Tria ha potuto far poco. Con una manovra che non puntava direttamente sullo sviluppo, ma solo sulla redistribuzione di inesistenti risorse non poteva avviare la discussione sugli squilibri macroeconomici del Paese, chiedendo il rispetto delle stesse regole europee. È rimasto irretito nella discussione sui decimali. Il terreno peggiore per far valere le proprie ragioni. E ne è uscito sconfitto. Ha potuto far appello soltanto a coefficienti moltiplicativi del reddito, via aumento del consumo, che non reggono alla prova dei fatti. Chi garantisce che quelle maggiori disponibilità finanziaria da parte dei (pochi) fortunati percettori del reddito di cittadinanza non si traducano in aumento delle importazioni? Visto che i prodotti cinesi costano molto meno di quelli italiani.

La Commissione, giustamente, non gli ha creduto, facendo venir meno l’unica giustificazione possibile – l’aumento del pil – come strumento principe della riduzione del debito in relazione al prodotto interno lordo. Era difficile ipotizzare il contrario. Bastasse stampare moneta o aumentare il deficit per generare sviluppo, non avremmo problemi di povertà. Ma tutti saremmo felici di partecipare al banchetto imbandito. E godere di quei pasti gratis che non esistono in natura, ma solo in una visione naif dell’economia. Ed allora non resta che tornare a casa con le pive nel sacco. E consolarsi con il fatto che questo è il volere della maggioranza degli italiani.

Ma è proprio così? Torniamo a bomba sui temi dell’interesse nazionale. Conta il consenso, ma da solo non basta. Ad esso deve unirsi quel senso di responsabilità che consente, anche, di respingere soluzioni che, in apparenza, fanno il bene del popolo. Prima di lasciarlo precipitare nel baratro di un precipizio. La politica – arte pedagogica – dovrebbe servire anche a questo.

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