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Dagli arresti alla pena capitale. Continua la vendetta cinese per il caso Huawei

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Nuova pagina nel caso Huawei che da due mesi vede sull’orlo di una definitiva rottura diplomatica Cina e Canada. La ritorsione del governo cinese contro i canadesi, rei di aver arrestato lo scorso 6 dicembre la n.2 di Huawei Meng Wanzhou, che ora rischia l’estradizione negli Stati Uniti e più di 30 anni di carcere, entra in una fase 2.0. Dopo la detenzione arbitraria di un consulente e un diplomatico canadese, Michael Kovrig e Michael Spavor (ribattezzati in patria “i due Michaels”), da Pechino arriva la notizia di un cittadino canadese condannato a morte.

Si tratta di Robert Lloyd Schellenberg, trentaseienne arrestato nel 2014 con l’accusa di trasportare 222 chili di metanfetamina dalla Cina all’Australia passando per la Thailandia. Lo scorso novembre il Tribunale popolare intermedio di Dailan aveva emesso la condanna a 15 anni. A dicembre il colpo di scena: un’alta corte ha definito la sentenza “troppo indulgente” costringendo il Tribunale nella provincia di Liaoning al riesame. È di oggi la notizia del verdetto definitivo: Schellenberg sarà condannato a morte. “La corte rigetta completamente le spiegazioni dell’accusato e della difesa perché sono completamente incompatibili con i fatti” ha sentenziato il giudice a capo della giuria lasciando esterrafatti i legali che la rete diplomatica canadese, Global Affairs Canada, aveva offerto all’imputato.

Benché Pechino smentisca qualsiasi collegamento con la vicenda Huawei, è difficile non riscontrare un file rouge fra la rottura con Ottawa e la pena capitale. Non è un caso d’altronde che la vicenda giudiziaria di Schellenberg sia stata opportunamente pubblicizzata dalla stampa cinese solo all’indomani dell’arresto di Meng a Vancouver. “Non contento di diffondere droga in un solo Paese, il soggetto l’ha fatto anche oltre confine… è un pericolo per la salute umana e per la stessa stabilità dei Paesi” ha chiosato il giudice. L’imputato si è invece limitato a poche parole prima di sentire la sentenza: “Non sono un trafficante, sono venuto in Cina come turista”.

Schellenberg ha ora dieci giorni per appellare la sentenza. Un’ipotesi quantomai remota in Cina, dicono esperti legali sentiti dal Daily Mail, tanto più per verdetti così pesanti. Nel frattempo non si è fatta attendere la risposta del governo canadese, che tramite il consolato continua a offrire supporto al condannato. “È causa di profonda preoccupazione per noi, e dovrebbe esserlo per tutti i nostri amici e alleati internazionali, che la Cina abbia deciso di applicare arbitrariamente la pena di morte come in questo caso” ha confidato ai cronisti il premier Justin Trudeau. Parole che confermano la rilevanza diplomatica della condanna di Shellenber, ora suo malgrado divenuto una preziosa leva negoziale in mano al governo cinese per trattare sul caso Meng.

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