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La verità sul (neo)liberismo secondo Mingardi

Di Valentina Cefalù

Il “neoliberismo” è il capro espiatorio perfetto per questi tempi confusi, l’elefante nella stanza che tutti, quando ce n’è bisogno, additano. È questo il pensiero di Alberto Mingardi, tra i fondatori ed attualmente direttore dell’Istituto Bruno Leoni, nonché adjunct scholar del Cato Institute, Washington Dc. Mingardi è nelle librerie con La verità, vi prego, sul neoliberismo. Il poco che c’è, il tanto che manca (ed Marsilio) presentato ieri presso la libreria La Feltrinelli con Emma Bonino (senatrice e leader +Europa), Mara Carfagna (vicepresidente della Camera) e Angelo Panebianco (Corriere della Sera).

Il direttore dell’Istituto Bruno Leoni nel suo saggio si mostra convinto che le politiche di liberalizzazione e di apertura dei mercati siano state una rarità. Una fioca luce accesa solo da due giganti del Novecento come Ronald Reagan e Margaret Thatcher.

Dottor Mingardi, negli anni, il paradigma neoliberista è stato duramente criticato non solo per ragioni tecniche, ma anche e soprattutto per ragioni morali, per Piketty avrebbe prodotto “una esplosione senza precedenti delle disuguaglianze di reddito”. Altri, come Luttwak e Soros hanno denunciato il cosiddetto “turbo capitalismo” e il paradigma neoliberista come una “minaccia” per le basi morali e istituzionali della “società aperta” causa di automatismo e disfunzioni sociali, addossando al neoliberismo le colpe più truci, ma fondamentalmente tutte legate alla libera determinazione delle forze del mercato. Evidentemente, qualcosa di profondamente sbagliato c’era nell’idea che lo stato doveva limitarsi a garantire il corretto funzionamento del libero mercato?

Su che cosa succederebbe se lo Stato si limitasse a garantire il corretto funzionamento dell’economia di mercato – cioè a far rispettare i contratti e i diritti di proprietà – possiamo fare delle ipotesi e accapigliarci su quelle. Ma non stiamo parlando, come alcuni sostengono, di qualcosa che è avvenuto nel mondo negli ultimi quarant’anni. Limitiamoci a un esempio. Prima che la Signora Thatcher diventasse premier, in Inghilterra, la spesa pubblica pesava un po’ più del 45% del Pil. Negli undici anni nei quali è stata al governo, anni nei quali per la prima volta è stata usata la parola “privatizzazione” perché per la prima volta si è deciso di de-nazionalizzare, e non nazionalizzare, delle imprese, la spesa pubblica pesava per il 43% del prodotto interno lordo. Sarebbe questo lo Stato “minimo”? In realtà ci sono moltissimi critici del neoliberismo, e pochissimo liberismo. L’esito, davvero paradossale, è che ad assistere alla discussione pubblica nell’Italia di oggi sembrerebbe che lo Stato conti per il 5, il 6 per cento del prodotto. E invece la spesa pubblica è metà del prodotto interno lordo.

Lei sostiene che la risposta alla “leggenda nera” del neoliberismo è riconducibile ad una visione distorta del rapporto tra Stato e mercato. In realtà di Stato ce n’è ancora tanto e di mercato relativamente poco. Cosa significa questo per le tanto annunciate liberalizzazioni e il libero mercato?

Nell’Italia di oggi, sembra mancare una precisa volontà di fare delle liberalizzazioni. Penso alla vicenda taxi-Ncc, alle farmacie o alle aperture dei negozi. L’attuale governo si regge su due forze politiche che hanno sicuramente forti differenze, ma sono unite dall’idea che tutto ciò che potrebbe avvicinare l’Italia non all’utopia neoliberista, ma semplicemente al modo in cui certi ambiti della vita economica sono regolamentati in altri Paesi europei, vada rifiutato. E non va meglio con le opposizioni: il Pd, il vecchio centro-sinistra, ha fatto fare al nostro Paese passi avanti verso la cultura di mercato, soprattutto fra il 1996 e il 2001. Ma oggi un po’ se ne vergogna, perché con la crisi del 2007-2008 i suoi principali esponenti sono tornati alle parole d’ordine della loro gioventù, e un po’ desidera riposizionarsi al fianco del Movimento Cinque Stelle. Alcuni esponenti di Forza Italia dicono cose più liberali ma dovrebbero fare i conti con le esperienze di governo del passato, nelle quali il centro-destra ha molto parlato di semplificazione e riduzione delle imposte e ha fatto pochissimo. Invece fare i conti col passato è difficile, a maggior ragione ora che riscende in campo il Cavaliere.

Innovazioni importanti sono frutto della ricerca di grandi centri universitari, pubblici e privati – e non soltanto del finanziamento pubblico. Ha ragione Mariana Mazzuccato a difendere il ruolo dello Stato in economia?

Parafraso Adam Smith. Per portare un Paese dalla povertà alla prosperità, servono solo tre cose: che sia in pace, che abbia tasse basse e semplici da comprendere e da pagare, e che la giustizia sia amministrata in modo decente. Tutto lì. È sorprendente come le persone sappiano inventarsi sempre modi nuovi per venire incontro ai desideri e alle domande dei loro simili, se appena li si lascia liberi di farlo. È sufficiente consentire loro di sperimentare cose nuove. Le innovazioni non le producono i “centri” o i “sistemi”: sono il frutto della creatività, della determinazione, dell’intelligenza di individui straordinari. È solo la libertà di provarci, la libertà di fare cose nuove, che le consente. Mariana Mazzucato sostiene che dietro ogni innovazione c’è lo Stato. Ritiene che debbano essere fatti grandi investimenti pubblici, la cui direzione è decisa sin da principio. Ritiene che lo Stato sia più bravo a decidere come investire risorse di quanto non lo siano invece i privati: lo Stato può concedersi il lusso di pensare al lungo periodo, il privato vuole fare soldi il più presto possibile. Per carità, uno Stato che controlla, gestisce e distribuisce risorse per la metà del prodotto finirà anche per finanziare progetti che a un certo punto producono innovazioni, perché un po’ di quelle risorse finiranno anche nelle mani di persone creative. Sarebbe ben improbabile che non succedesse. Ma non è detto che tutti i soldi che lo Stato spende finiscano nelle mani giuste, semplicemente perché li sta spendendo lo Stato. Anzi, direi che soprattutto in Italia dovremmo tutti ricordarci di esperienze un poco diverse.

Secondo lei, l’impresa privata rispetto allo Stato può contare su un sistema più meritocratico?

Il punto non è che lo Stato sia una “meritocrazia”, cioè un sistema che sceglie persone in base ai meriti personali, più o meno efficace dell’impresa privata. Il punto è che le istituzioni migliori non sono quelle che scelgono la persona migliore o che prendono la decisione giusta, ma che consentono più facilmente di correggersi quando si è sbagliato. Anche le persone migliori sbagliano, anche quelle che oggi appaiono decisioni azzeccatissime domani possono rivelarsi sbagliate. L’economia di mercato consente di solito di correggersi prima e meglio di quanto non facciano le imprese pubbliche.

Come giustifica questo ritorno allo statalismo?

Per molti lo statalismo è semplicemente una fede: lo Stato è “buono” per definizione. Del resto, solo la fede può spiegare lo statalismo di tanti italiani. I quali sono i primi a lamentarsi costantemente della qualità dei servizi pubblici, a pensare che il settore pubblico sia il regno della raccomandazione e della corruzione, a sapere che i loro rappresentanti eletti sono dei furbacchioni. E poi, davanti a ogni problema, invocano l’intervento salvifico di quello stesso Stato.

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