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Le clausole di salvaguardia sono il vero problema per i conti pubblici italiani. L’allarme di Confindustria

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Sono da almeno sei o sette anni buoni la spada di Damocle della finanza pubblica italiana. Le clausole di salvaguardia accompagnano con cadenza annuale le manovre di bilancio dal 2011 ad oggi e poco importa che il colore del governo sia azzurro, rosso o gialloverde. Se non si raggiungono gli obiettivi di bilancio prefissati e concordati con l’Ue, scatta la tagliola: aumenti automatici di aliquote Iva e delle accise.

In altre parole, se per esempio si sfora il deficit o si manca la riduzione del debito, per non sballare i conti e aprire le porte alla bancarotta, si aumentano le tasse. Iva e accise, soprattutto. Perché se lo Stato spende di più, da qualche parte i soldi devono rientrare oppure si va in default. Senza considerare che tali aumenti automatici rappresentano una sorta di strumento di contrattazione con Bruxelles: se vuoi più deficit devi garantire un modo per rientrare della spesa. L’attuale legge di Bilancio, approvata a Natale, ha però il merito di aver spinto la posta decisamente verso l’alto (siamo arrivati a 23,1 miliardi di aumenti Iva, con un’aliquota al 26,5%, seconda solo all’Ungheria) e di averla proiettata fino al 2020, perché spostarla al 2019 non sarebbe stato sufficiente a convincere la Ue a lasciar perdere la procedura d’infrazione a carico dell’Italia. E oggi il Centro Studi di Confindustria ha ricordato all’Italia (e al governo) la gravità della situazione, pubblicando un documento dal titolo emblematico, Clausole di salvaguardia alla deriva.

“Le clausole di salvaguardia introdotte per gli anni tra il 2012 e il 2021 avrebbero dovuto garantire un maggior gettito tendenziale pari a 64,8 miliardi di euro, 55,6 miliardi al 2019. Di questi, poco più della metà si è tradotto in un miglioramento del deficit tendenziale (circa 28 miliardi), per effetto dellʼattivazione delle clausole e della loro compensazione con altre maggiori entrate e minori spese”. Tutto molto semplice. Far scattare l’aumento del prelievo fiscale, dice Confindustria, non ha portato a quelle correzioni sperate, vuoi per la crisi dei consumi, vuoi per la mancanza di crescita. D’altronde, è bene ricordarlo, aumentare le tasse a un’economia che non cresce è del tutto inutile. “Restano ancora attivabili 28,8 miliardi (di clausole, ndr) tra il 2020 e il 2021, stando alla clausola di salvaguardia Iva attualmente in vigore, introdotta dal governo Renzi e modificata ben sei volte da dicembre 2014, da ultimo con la Legge di Bilancio per il 2019 del governo Conte”, scrive il Centro studi di Confindustria diretto da Andrea Montanino.

Ma il punto è per gli industriali un altro. Negli ultimi anni i vari governi hanno disinnescato più volte le clausole di salvaguardia, bloccandone lo scatto grazie al deficit. Una cane che si morde la coda perché se da una parte le stesse clausole sono state pensate per evitare di sballare il bilancio pubblico, dall’altra il loro congelamento è avvenuto con maggior spesa statale quando invece sarebbe bastata la crescita. Per questo così come sono andrebbero abolite, dice Confindustria. “Il crescente ricorso alle clausole e la loro sterilizzazione in larga parte a deficit ne hanno vanificato le potenzialità, creando incertezza sui conti pubblici italiani, tanto che la Commissione europea dalle previsioni formulate a maggio 2015 ha deciso di non includerne più gli effetti. Per questa ragione, occorre liberarsi quanto prima delle clausole così come sono ora, concordando con la Commissione europea una strategia di uscita che restituisca credibilità agli obiettivi di bilancio programmati”. Nella sostanza “il governo dovrebbe proporre all’Ue un piano in cui si impegna a non introdurre nuove clausole e a coprire nel prossimo biennio una quota sufficientemente ampia di quelle ancora attive, finanziando la parte restante in deficit”.

Ma i controsensi in Italia non si esauriscono qui. Perché anche sul fronte pensionistico qualcosa non funziona, almeno secondo la Corte dei conti, che questa mattina ha inaugurato il nuovo anno. Questo il problema: mandare gente in pensione anticipata può creare seri problemi all’amministrazione pubblica, che rimarrebbe a corto di risorse soprattutto tra i quadri. E chi manderebbe avanti la macchina pubblica? Per una Pa che cerca slancio, insomma, l’uscita anticipata dal lavoro rischia di essere un boomerang. Anche perché gli stessi dipendenti pubblici che vanno in pensione sono gli stessi che dovrebbero gestire l’enorme mole di domande per la quota 100. “Il pensionamento anticipato con quota 100 suscita notevoli preoccupazioni circa le ricadute sull’organizzazione degli uffici per i vuoti negli organici che presumibilmente si apriranno copiosi nel breve termine. Tuttavia, ha aggiunto, questi vuoti “costituiscono un’occasione unica da non perdere per promuovere il ricambio generazionale nel quadri pubblici”.

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