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L’amicizia tra Russia e Cina è una minaccia per Washington. Cosa c’entra l’Inf

L’ultimo numero del National Interest titola in copertina “New Best Friends?”, e i nuovi migliori amici dovrebbero essere Russia e Cina. La tesi, raccolta in saggi (tra cui quello ripreso dal Wall Street Journal di Graham Allison e Dimitri K. Simes, uno professore di Harvard, l’altro direttore del Center for the National Interest) parte da un concetto affermato pochi giorni fa durante un’udienza al Senato dal Director della National, Dan Coats: Cina e Russia sono “più allineate” rispetto al passato. Perché?

Ovviamente non c’è una risposta unica o univoca a una questione così complessa, che è il nodo da cui si dipanerà la geopolitica globale dei prossimi decenni. Secondo l’analisi di Allison e Simes, per esempio, è la politica estera americana che sta inavvertitamente spingendo le due grandi potenze a collaborare più da vicino.

“Un grande allineamento […] che si è spostato dal regno dell’ipotetico verso ciò che potrebbe presto diventare un fatto geostrategico. Pechino e Mosca si stanno avvicinando per incontrare ciò che ciascuno considera la minaccia americana“, spiegano i due autori. Che fanno anche un altro ragionamento generale su un questione profonda e complessa: “Una solida strategia globale statunitense combinerebbe un maggiore realismo nel riconoscere la minaccia di un’alleanza Pechino-Mosca, e maggiore immaginazione nel creare una coalizione di nazioni per soddisfarla”.

Il ritiro degli Stati Uniti dal trattato Inf, quello che riguarda il controllo degli armamenti nucleari a medio raggio, è una faccenda di attualità in cui si sommano le complessità strategiche del confronto tra Washington e Pechino-Mosca. L’amministrazione Trump, seguendo un trend avviato da circa dieci anni, ha denunciato le violazioni russe all’intesa firmata nel 1987; poi ha concesso alla Russia un ultimatum come possibilità per riallinearsi, e infine in assenza di un feedback positivo da Mosca, con un gesto forte ha deciso di tirar fuori gli Usa dal trattato. Ma non ci sono solo le violazioni russe: dietro alla decisione americana c’è la necessità di contrastare lo sviluppo militare cinese (cosa che anche il Cremlino ha sottolineato, anche se Mosca ha subito approfittato per rilanciarsi sul settore missili).

Due anni fa, era stato l’ammiraglio Harry Harris, comandante della Flotta del Pacifico (noto per le sue posizioni piuttosto severe con la Cina), a dare uno spaccato della situazione che gli Stati Uniti si trovavano davanti: parlando al Comitato Forze armate del Senato, nella sua ultima audizione prima del congedo, Harris – uno di quei capi militari che ha anche funzione di pianificazione politica – aveva voluto lasciare una specie di eredità. L’ammiraglio spiegava che l’Esercito di liberazione popolare cinese “ha ora la forza missilistica più grande e diversificata del mondo, con un inventario di oltre 2.000 missili balistici e da crociera”, aggiungendo che più o meno il 95% dei missili cinesi avrebbe violato l’Inf se la Cina ne avesse fatto parte.

Restare dentro all’Inf avrebbe significato tener fede a un accordo costantemente violato da uno dei firmatari, e che per altro faceva da base per lo sviluppo laterale di un attore esterno aggressivo, che sfruttando le limitazioni che gli altri si erano auto-imposti con quell’intesa guadagnava via via più terreno.

Se la Russia violava il trattato, e la Cina poteva fare ciò che voleva non facendone parte, gli Stati Uniti, che erano gli unici a rispettare le regole, restavano necessariamente indietro (c’è già un piano per recuperare: adeguare i Tomahawk al lancio da terra). Nei giorni scorsi, mentre gli Usa annunciava il ritiro dal trattato, il ministero degli Esteri cinese faceva sapere di non essere interessato a negoziarne un altro più ampio, che potesse includerli.

I congressisti americani sono piuttosto ricettivi davanti a certe situazioni: se c’è un dossier, tra quelli macro e quelli più specifici, che mette tutti d’accordo, da Capitol Hill alla Casa Bianca, quello è il contrasto alla Cina. Contrasto globale, “di fronte una Cina sempre più assertiva”, scriveva Eric Sayers, assistente speciale di Harris a proposito dei missili, ma il concetto è traslabile a tanti altri argomenti (il commercio, per esempio, o il contrasto alle attività non regolari con cui i cinesi guadagnano campo sul mondo dell’hi-tech, o la tutela degli alleati nelle contese territoriali come a Taiwan o nel Mar Cinese). E più o meno, lo stesso vale per la Russia, contro cui l’attuale amministrazione – nonostante un rapporto ancora non chiaro del presidente – ha avviato politiche di contenimento severe.

Non a caso, nell’ultima National Security Strategy, documento che il governo americano divulga su strategie e minacce che la nazione affronta e affronterà con cadenza non prescritta, Cina e Russia sono indicata come “rival powers“. Secondo alcuni studiosi, l’intera strategia con la Russia del presidente Donald Trump riguarderebbe il contrasto alla Cina. Al di là delle questioni collegate al Russiagate, di cui saranno le indagini a darne consistenza, la teoria sarebbe questa: se gli Stati Uniti riescono a integrare la Russia in dinamiche di cooperazione, anche attraverso la sponda europea, allora sarà più difficile che Mosca si avvicini e sbilanci verso Pechino, dando vita e materia a quell’allineamento strategico che moltiplica la dimensione di quello che a Washington è percepita come un minaccioso attore rivale: la Cina.

 

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