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Ritorno di fiamma. Perché l’ombra di Putin torna a stagliarsi sulla Lega

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Vladimir Putin e Alberto Da Giussano tornano a far parlare di sé, e questa non è una buona notizia per Matteo Salvini. Mentre la Lega cresce e si gonfia a scapito dell’alleato penstastellato, trend confermato dalle elezioni in Sardegna, i riflettori dell’opinione pubblica si riaccendono sui rapporti fra il Carroccio e il Cremlino. Pessimo tempismo. Da qualche mese il dossier russo era stato messo da parte dal “Capitano” e dal suo team. La politica estera non scalda particolarmente i cuori dell’elettorato leghista. Il braccio di ferro sui migranti, la manovra gialloverde e i battibecchi con Bruxelles avevano scalato l’agenda invernale del vicepremier, congelando a data da destinarsi la battaglia contro le sanzioni Ue. Tant’è che quando quelle sanzioni sono state rinnovate nel Consiglio europeo del 13 dicembre con il beneplacito del premier Giuseppe Conte, dalle fila leghiste non si è alzata una sola voce di protesta. Una scelta comprensibile. Non era il caso, nel bel mezzo di un duro confronto con l’Europa sulle misure finanziarie, di varcare il Rubicone con un veto che avrebbe isolato l’Italia nel Vecchio Continente e messo a rischio le relazioni con l’alleato statunitense.

Una seconda ragione dietro al silenzio leghista è invece squisitamente politica. Con i sondaggi che, di mese in mese, incoronano il Carroccio primo partito italiano, la linea pro-Russia ha subito una notevole flessione. Il passaggio dal movimento di trincea al partito di establishment ha portato con sé un giro di vite in politica estera. Il caso venezuelano è eloquente. Se il Movimento Cinque Stelle ha da subito preso le difese di Nicolas Maduro, invocando nel nome di una non meglio precisata imparzialità elezioni libere e disconoscendo Juan Guaidò come presidente ad interim, la Lega si è schierata compatta con gli alleati atlantici. Le dichiarazioni di Salvini e di autorevoli voci del partito come Guglielmo Picchi non lasciano spazio a interpretazioni. La svolta atlantica della Lega, se di svolta si può parlare, non è passata inosservata sulla stampa internazionale. Diverse autorevoli testate estere, a partire dal Financial Times, hanno in questi mesi invertito il giudizio sul governo gialloverde, riconoscendo a Salvini il ruolo di timoniere e bollando come estremiste certe sbandate pentastellate. Il continuo lavorio di Picchi prima e di Giancarlo Giorgetti ora per preparare una visita ufficiale del segretario negli Stati Uniti è il segnale della ricerca di un dialogo con l’alleato atlantico che un’adesione acritica alla linea di Mosca può compromettere.

In questi giorni quel delicato equlibrio ricercato dal ministro dell’Interno e dal suo team rischia di saltare. L’ultimo numero de L’Espresso ha rigettato sul Carroccio l’ombra del Cremlino con un’inchiesta che farà discutere. “Tre milioni per Salvini”, questo il titolo che campeggia in copertina, dove il segretario leghista ha le fattezze di un burattino manovrato dal presidente russo. L’articolo di Giovanni Tizian e Stefano Vergine, anticipo del volume “Il libro nero della Lega” in uscita per Laterza a fine mese, mette a fuoco la visita del segretario leghista a Mosca lo scorso ottobre, quando è stato invitato a parlare di fronte alla platea di Confindustria Russia. Fra i tanti incontri susseguitisi fra l’entoruage di Salvini ed esponenti dell’establishment politico e finanziario russo in quelle giornate moscovite, uno in particolare è finito nel mirino del quotidiano diretto da Marco Damilano. Una colazione all’Hotel Metropol, la mattina seguente al ricevimento, fra Gianluca Savoini e Ylia Andreevich Yakunin, influente manager russo. Sul piatto un accordo fra Eni e Rosneft per far comprare al gigante italiano una fornitura da 3 milioni di tonnellate di diesel da consegnare entro 6 mesi o un anno, pagati attraverso una società russa e una banca europea non precisate. In cambio, questa l’accusa de l’Espresso, Savoini avrebbe chiesto un finanziamento di 250.000 euro al mese per la campagna elettorale delle europee.

La Lega ha già promesso querele bollando come assurde le accuse, ma il danno è fatto. La notizia è rimbalzata sui giornali esteri riportando sotto i riflettori pubblici la vexata quaestio dei rapporti fra partito e governo russo. Rapporti anche formali, cristallizzati in quell’accordo siglato a Mosca nel marzo 2017 con Russia Unita, il partito di Putin, e rinnovato fra le componenti giovanili dei rispettivi movimenti lo scordo 17 novembre. Per Salvini si tratta di pessima pubblicità sotto ogni punto di vista. Una grana anche in vista delle europee: un accordo post-voto dei sovranisti con i popolari o i conservatori, necessario per avere i numeri all’Europarlamento, passa anche dall’abbandono di certe simpatie filorusse incompatibili con la sensibilità dei “vecchi” partiti dell’establishment europeo.

Come non bastasse, ci si mette anche la Rai. Un’intervista del Tg2 ad Alexandr Dugin, famoso e controverso intellettuale russo, padre dell’eurasiatismo, ha innescato aspre polemiche. Intellettuale ormai in piena decadenza in patria (qui un ritratto di Formiche.net), dove è considerato un estremista, tanto da esser stato cacciato dall’università di Mosca, Dugin ha scoperto una seconda giovinezza nell’Italia sovranista, che continua imperterrita a presentarlo come “consigliere di Putin”. Nei due minuti e mezzo di intervista lo scrittore si è profuso in elogi a Salvini e Di Maio, al popolo che combatte le élites, a Putin, definito un novello “Mosè”. Non è la prima volta che la Rai di Marcello Foa dà spazio all’olimpo degli intellettuali putiniani. Un comizio di Dugin in prima serata però è stato reputato troppo dalle opposizioni, che ora puntano il dito contro Salvini per la russofilia della tv pubblica. Ancora una volta, pessimo tempismo. Per il Capitano disfarsi dell’ombra di Putin sarà meno facile del previsto.

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