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Afghanistan, il compromesso possibile in ambito Nato

Di Claudio Bertolotti

Se in occasione del summit di Bruxelles dell’11-12 luglio scorso, la Nato ha riaffermato l’impegno al fianco degli Stati Uniti per “garantire la sicurezza e la stabilità a lungo termine in Afghanistan”, con la riunione ministeriale del 13-14 febbraio 2019, l’Alleanza Atlantica ha dovuto prendere atto delle intenzioni di ritiro avanzate dal presidente Donald J. Trump, che a fine dicembre aveva annunciato il ritorno in patria di metà del contingente statunitense. Eppure, dai ministri della Difesa dei 29 membri (compreso il capo del Pentagono Patrick Shanahan) un messaggio è arrivato con chiarezza dal vertice: ogni decisione sarà concertata con alleati e partner. Una linea, quest’ultima, sposata anche dall’Italia.
Un impegno, quello statunitense e dell’Alleanza Atlantica sino ad ora mai venuto meno, pur a fronte di un significativo ridimensionamento in termini di truppe in una guerra che è costata agli Stati Uniti più di 900 miliardi di dollari e che, per il 2019, prevede l’impegno di ulteriori 46,3 miliardi.
Oggi, con l’inizio del diciottesimo anno di guerra afghana, un compromesso oneroso ma necessario potrebbe portare verso l’uscita dalla più lunga guerra combattuta dagli Stati Uniti, al cui fianco c’è la Nato; una guerra iniziata il 7 ottobre di 17 anni fa con l’abbattimento del regime talebano in risposta agli attacchi agli Stati Uniti dell’11 settembre 2001.

COMBATTERE IL TERRORISMO

La soluzione negoziale alla base del compromesso, a fronte del costo di una guerra che non offre vie di uscita alternative, potrebbe dunque portare al disimpegno da un’ampia parte del paese, che de facto i talebani già controllano. Un’opzione che svincolerebbe forze internazionali ed afghane, disperse su un territorio troppo ampio per poter essere tenuto sotto controllo, ma che, al contempo, non esclude la prosecuzione dei combattimenti contro quei gruppi che potrebbero farlo fallire o ridimensionarne la portata: l’Haqqani network, che condivide la leadership del movimento talebano ed è legata ad al-Qa’ida, e il franchise afghano del gruppo Stato islamico, operativo nel sub-continente indiano con il nome di Stato islamico Khorasan – in competizione con i talebani e in fase di consolidamento in Afghanistan, anche grazie all’arrivo di jihadisti reduci del fronte siriano-iracheno.
Un’ipotesi confermata dall’ex-comandante della missione Nato Resolute Support e dell’operazione Freedom’’ Sentinel in Afghanistan, il generale John William Nicholson, che poco prima di cedere il comando al successore, generale Austin Scott Miller, sottolineava come l’approccio fosse basato sul “parlare e combattere”. Archiviata dunque la narrativa incentrata su un processo negoziale ad esclusiva guida e gestione afghana, Washington ha imposto un nuovo indirizzo unilaterale aprendo formalmente il canale negoziale con i talebani, come avvalorato dall’incontro di fine luglio 2018 in Qatar tra la delegazione talebana guidata dal mawlawì Sher Mohammad Abbas Stanikzai – dal 2015 capo dell’ufficio dell’Emirato islamico dell’Afghanistan a Doha dopo le dimissioni del suo predecessore seguite alla rivelazione della morte di Mullah Omar – e la delegata statunitense Alice G. Wells del South and Central Asian Affairs. Un evento analogo a quello del 2015, avvenuto in assenza di una delegazione del governo del presidente Ashraf Ghani e dal suo Chief Executive Officer Abdullah Abdullah.
Che qualcosa sui tavoli di Doha stesse cambiando lo si era capito il 25 gennaio 2019, quando il movimento talebano aveva nominato a capo dell’ufficio politico in Qatar il mullah Abdul Ghani Baradar, che già in passato aveva avuto un ruolo nel negoziato tra i talebani e il governo afghano allora guidato da Hamid Karzai e che, proprio per questo, venne catturato nel 2010 dai pachistani e dagli Stati Uniti, e da allora detenuto in Pakistan. La sua scarcerazione e questo cambio al vertice ha avuto lo scopo di lanciare un messaggio preciso: il Pakistan e gli Stati Uniti hanno preso la decisione di concludere un accordo con i talebani.

CAMBIO PRAGMATICO DI STRATEGIA: VIA LE TRUPPE

Una scelta che è la conferma di un cambio significativo nella strategia statunitense verso il “problema” afghano, ora improntata al pragmatico realismo di chi comprende che è tempo di giungere a una conclusione. Un mutato approccio sul piano politico-diplomatico a cui sta seguendo l’evoluzione sul piano militare e l’inizio di una nuova fase della guerra che sino ad ora ha seguito la linea tracciata dalle precedenti strategie, basate sull’aumento della pressione sui gruppi di opposizione armata sul campo di battaglia, per costringerli a negoziare e, alla fine, a riconciliarsi con il governo di Kabul: è ciò che fece prima George W. Bush e poi il suo successore Barack Obama con un surge militare che portò a schierare sul fronte afghano oltre 140mila soldati: senza però riuscire nell’intento.

L’amministrazione del presidente Donald J. Trump ha tentato sino ad ora di riuscire nello stesso obiettivo, ma con poco meno di 20mila soldati, dei quali un terzo non combattenti inquadrati nella missione a guida Nato, e un cospicuo numero di contractor che, ad oggi, ammonta a 20ma soggetti e che potrebbe essere destinato ad aumentare.

STOLTENBERG: LA NATO SI MUOVERÀ IN MANIERA UNITARIA

Dal punto di vista dell’Alleanza Atlantica, il Segretario Generale della Nato, Jens Stoltenberg, ha ribadito il ruolo unitario degli alleati in Afghanistan; ruolo che impone di “prendere insieme le decisioni sul futuro della missione”.

Claudio Bertolotti (Ph.D), Direttore di Start InSight, analista strategico per il CeMiSS, docente e ricercatore associato Ispi

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