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Che dice il governo dei nuovi alleati cinesi che minacciano i giornalisti italiani?

coronavirus, Li Wenliang

Ieri, mentre si trovava al Quirinale per seguire la conferenza stampa congiunta tra il presidente delle Repubblica, Sergio Mattarella, e l’omologo cinese Xi Jinping – in visita a Roma per firmare l’adesione dell’Italia all’infrastruttura geopolitica Belt & Road – la giornalista del Foglio Giulia Pompili è stata avvicinata da un funzionario dell’ambasciata cinese in Italia che le ha detto: “La devi smettere di parlare male della Cina!”.

Parliamoci chiaro prima di andare avanti: Pompili è una giornalista in gamba, è l’esperta di Asia del Foglio, e non è la prima volta che frequenta certi contesti. Sa perfettamente, come è capitato a tutti, che spesso possano esserci battute, anche dette come mezze verità, da parte di chi è coperto dalle notizie verso chi deve coprirle. Sono situazioni comuni, che però normalmente lì si fermano: un sorriso, una battuta di risposta, e via ognuno al proprio lavoro.

Stop: questo succede in Italia, a Pechino in effetti la stampa è controllata dal governo e questo innesca ovviamente dinamiche differenti tra chi racconta le notizie, chi le produce, chi le controlla e filtra. Sulla libertà di stampa la Cina è al 176esimo posto su 180 paesi analizzati dall’associazione indipendente Reporters sans frontièrs. In un discorso del febbraio 2016, riferendosi ai giornalisti che lavorano per la televisione CCTV, l’agenzia giornalistica Xinhua e la testata del Partito People’s Daily, il presidente Xi ha dichiarato: “Devono amare il partito, proteggere il partito, ed essere strettamente in linea con la direzione del partito, con il suo pensiero, la sua politica e la sua azione”.

Stavolta le cose pare siano andate diversamente anche a Roma, con un tentativo di mandarle po’ più à la cinese. L’incontro di Pompili è avvenuto lungo il corridoio che porta alla Sala degli Specchi, dove stava iniziando l’appuntamento congiunto con la stampa in cui Xi ha ringraziato “gli amici dei media” della “squisita accoglienza”. Il funzionario cinese, Yang Han (recentemente nominato capo dell’ufficio stampa dell’ambasciata), ha avvicinato la giornalista italiana e le chiesto il nome, poi ha fatto quel commento. Pompili ha risposto pensando “fosse un commento non benevolo, ma nemmeno eccessivamente serio”, scrive il Foglio, un sorriso come certa prassi vuole. Ma Yang ha incalzato: “Non devi ridere. La devi smettere di parlare male della Cina”, di nuovo.

A quel punto Pompili, sorpresa, ha provato a presentarsi, chiedendo al funzionario cinese il suo nome, ma lui non le ha risposto, non le ha dato la mano e gli ha detto: “E comunque so benissimo chi sei”. Successivamente, mentre avevano ripreso camminare verso la sala dell’incontro su invito di un dipendente del Quirinale, “quando la giornalista del Foglio ha tirato fuori il suo telefonino dalla tasca, Yang le si è avvicinato di nuovo, molto vicino, a muso duro, intimandole di metterlo via”.

Difendere Pompili non è spirito corporativista, ma è un sacrosanto dovere di ogni singolo cittadino italiano: sia giornalista o fruttivendolo interessato all’export delle arance, la libertà di stampa è un principio fondante della nostra democrazia. E su quella che sembra una specie di intimidazione contro una reporter, fatta all’interno del tempio della repubblica italiana da un funzionario dell’ambasciata cinese, è quanto meno logico che il governo cerchi delle risposte, chiedendo magari a quello che sta per diventare un fondamentale partner politico dell’Italia.

Per esempio: che cosa ne pensa il sottosegretario alla presidenza del Consiglio, Vito Crimi, che due giorni fa ha ospitato il convegno Dialogo tra Media Cina-Italia organizzato nell’ambito della visita di Xi?

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