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La Cina, i gialloverdi e quell’escamotage chiamato golden power che non servirà

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Corsa contro il tempo. Mancano pochi giorni all’attesissima visita del presidente cinese Xi Jinping a Roma, che, parola del premier Giuseppe Conte, si concluderà con la firma italiana sul memorandum of understanding di adesione alla Belt and Road Initiative (Bri). L’Italia dunque terrà la barra dritta, con buona pace dell’ininterrotto pressing dell’amministrazione Usa che da mesi avvisa Palazzo Chigi delle conseguenze che quel memorandum può avere sulla postura atlantica e la sicurezza del Belpaese.

A sentire il sottosegretario al Mise Michele Geraci, indiscusso Richelieu dell’operazione cinese, la quadra si è trovata. “Siamo al 100% allineati su tutto il dossier” ha chiosato da Milano a margine del Forum Italia-Cina. Sarà, ma la melina fra Lega e Cinque Stelle non accenna a fermarsi. Perfino nel salotto di Barbara d’Urso a Domenica Live Matteo Salvini è riuscito a tornare sul caso cinese. Ben venga il commercio, ma “stiamo attenti alla sicurezza nazionale”. È la linea abbracciata all’unisono dal Carroccio.

Da qualche mese i leghisti hanno (ri)scoperto un dna atlantista che di ora in ora aumenta il solco con i pentastellati, un giorno filoamericani e il giorno dopo maduriani, ieri russofili e oggi col cuore a Pechino. La sensazione è che la Lega non voglia mollare la presa sul casus belli scatenato dalla bozza di memorandum pronta ad essere firmata il prossimo 23 marzo.

C’è un paletto che i colonnelli salviniani vorrebbero mettere fra Palazzo Chigi e la Città Proibita. Si chiama golden power e viene chiamato in causa una volta al giorno da Giancarlo Giorgetti. Una colorita espressione con cui si indica, recita il sito web della Camera, “la facoltà di dettare specifiche condizioni all’acquisito di partecipazioni, di porre il veto all’adozione di determinate delibere societarie e di opporsi all’acquisto di partecipazioni”. Difesa, sicurezza nazionale, trasporti, energia, comunicazioni, tanti i settori che richiedono l’intervento dei poteri speciali.

Lo spiega il decreto legge n.21/2012 voluto dal governo Monti e poi aggiornato e integrato nel Dl fiscale del 2017 su input dell’allora titolare del Mise Carlo Calenda per allargare il campo ai settori di alta intensità tecnologica come industria 4.0. I gialloverdi hanno ricevuto in eredità uno schema di decreto per rinnovare la disciplina e renderla più incisiva. Il governo si era ripromesso di installare un nuovo “scudo” a difesa dei settori critici del Paese. Complice un iter burocratico da capogiro (con il concerto di Farnesina, Mef, Mise, Mit, Difesa e Trasporti, senza contare i pareri delle relative commissioni parlamentari), del golden power non si è saputo più nulla. È rispuntato qualche giorno fa, al Quirinale, al termine del vertice del governo con il presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ha ruotato (quasi esclusivamente) intorno alle cose cinesi. “Rafforzeremo il golden power”, ha detto Giorgetti. Un ritocco per smorzare i timori americani soprattutto sulla partecipazione di aziende come Huawei e Zte all’implementazione della rete 5G, i cui bandi partiranno ad aprile.

L’impressione è che si tratti di un vaccino da somministrare ex post, quando il danno è già fatto. Continua a sfuggire, o così pare, la reale portata del memorandum. Documento a prima vista vago e privo di vincoli, che però agli occhi esperti che hanno visualizzato la bozza in preparazione sembra più vincolante che mai. Si parla di telecomunicazioni, interoperabilità, e cooperazione con il governo cinese su un ampio spettro di materie rientranti nella Via della Seta. Il più ampio sottoposto con un memorandum a un Paese membro del G7 e alleato privilegiato degli Stati Uniti. Come ha giustamente notato Marco Caligiuri in un’intervista a Rebecca Mieli su Formiche.net, tirare in ballo il golden power “non vuol dire risolvere il problema, ma rimandarlo”.

Ampliare i poteri speciali rientra in una decisione tecnica, utile forse a vagliare una ad una le intese che le singole imprese sigleranno durante la visita di Xi a Roma. Ma non aiuta a dirimere la matassa. La firma sul memorandum è una decisione squisitamente politica, che, continuano a ripetere Stati Uniti e Nato, avrà ripercussioni politiche, regalando al governo cinese l’adesione di un Paese membro dell’Ue e pilastro dell’Alleanza atlantica alla Bri, nata, studiata e implementata come piano di egemonia politica prima ancora che economica. Come sulla Tav, ci risiamo un’altra volta: si ricorre a tecnici e tecnicismi per evitare di assumersi le responsabilità politiche delle scelte di governo. Può funzionare, per un po’, con gli affari domestici. Ma non in politica estera. Dove le scelte, sia pur legittime, non sono sempre reversibili.

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