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Xi Jinping in Italia e il rapporto tra la Cina e la Chiesa cattolica

Vaticano

Non sono ufficialmente previsti incontri ufficiali in agenda, tra Xi Jinping e Papa Francesco, per la prossima visita del Presidente cinese in Italia.

Nessuna delle due parti vuole, peraltro, mettere a repentaglio l’accordo del settembre scorso sulle nomine dei vescovi e, comunque, entrambe le diplomazie amano, come è noto, il silenzio e i tempi lunghi.

Chi si ricorda i vecchi precedenti diplomatici, si ricorda anche che ci fu la possibilità di un altro incontro, proprio dieci anni fa, tra Benedetto XVI e Hu Jintao, in Italia per il G8 a L’Aquila; ma fu piuttosto il leader cinese a dover rientrare rapidamente a Pechino, per una rivolta, come al solito più pericolosa di quanto si crede, nello Xingkiang.

Il cardinale Zen, fin dall’inizio, si è comunque opposto alla nomina “parallela” dei vescovi da parte di Pechino e di Roma, come prescritto, induttivamente, dall’accordo oggi in vigore tra Pechino e il Vaticano.

Il cardinale Zen di Hong Kong e arcivescovo della sede cinese fino al 2009, ha, lo ricordiamo, fin dall’inizio bollato l’accordo tra il Segretario di Stato cardinale Parolin e il regime di Pechino come “tradimento incredibile della Fede”.

Il vecchio prelato, è nato a Shangai nel 1932, proprio un anno dopo che Mao Zedong aveva fondato una sorta di Repubblica sovietica nello Jiangxi. Ma cominciano a prendere forma le nuove strategie e opportunità, o i nuovi contrasti.

Pietro Jin Lugang, per esempio, non è più un vescovo clandestino di Nanyang, dal 30 gennaio scorso, mentre il cardinale Filoni si è recato, recentemente, a Macao per inaugurare alcune nuove strutture dell’Università Saint Joseph.

Nel 2018, sono stati ben 48.365 i nuovi battezzati nelle Chiese e nelle parrocchie della Repubblica Popolare Cinese. I cattolici cinesi, oggi, sono quasi dieci milioni. E ci sono ben 104 diocesi riconosciute dal governo della Repubblica Popolare Cinese, con 30 provincie nazionali. Il numero maggiore di nuovi battezzati, in Cina, si verifica attualmente nella provincia di Hebei, con 13mila nuovi fedeli battezzati nel 2018, poi vi è lo Shanxi, con 4124 nuovi cattolici, ancora il Sichuan, con 3707, infine lo Shandong, con 2914 nuovi cristiani. Perfino in Tibet ci sono stati ben 8 battesimi, o nello Hainan, con 35, e nel Qinghai, con altri 43 e perfino nell’islamico Xingkiang, con ben 57 nuovi cattolici.

In punta di diritto, e non solo canonico, il cardinal Filoni esige che i membri delle comunità cattoliche cinesi non ufficiali non siano costretti, come invece prevede sottilmente il governo di Pechino, ad iscriversi alla specifica “Associazione Patriottica”. Ma, per il governo cinese, questa Associazione Patriottica, è comunque una “associazione popolare”, e quindi non ha alcun rilievo ecclesiale e, peraltro, la partecipazione ad essa è sempre “volontaria e mai imposta”. Lo dice Pechino, non il Vaticano.

Ma, risulta proprio al Vaticano, che, proprio nelle aree in cui, come abbiamo visto sopra, hanno una maggiore presenza di nuove vocazioni cattoliche, l’Associazione Popolare compia forti pressioni per far aderire sacerdoti e vescovi alla sua indipendenza nazionale “dal Vaticano e da ogni ingerenza estera”. Senza un fortissimo nazionalismo, però, non vi è mai alcuna ideologia cinese. Tanto meno, quella comunista nata dal Partito fondato a Shangai nel 1921.

Ci vorrebbe oggi, quindi, una politica, culturale e perfino, mi si permetta il termine, anche cultuale e sapienziale, tale da far comprendere al regime di Pechino che un cattolico cinese è tanto più cinese proprio in quanto è davvero cattolico. E che essere cattolico è proprio il momento in cui, come diceva San Josemaria Escrivà de Balaguer, si capisce che “la conversione è cosa di un istante, la santificazione è lavoro di tutta la vita”. E la santificazione del lavoro e della vita quotidiana vale per tutti, credenti e non. Ovvero, l’universalità del cattolicesimo comprende tutto l’esser cinese, italiano, indiano d’America o altro. Non c’è un esser cattolico, per un cinese, fuori dall’essere pienamente e assolutamente cinese.

La legge attuale cinese, peraltro, non obbliga comunque i sacerdoti e i vescovi ad iscriversi alla Associazione Patriottica, mentre in tutte le aree a maggior espansione della fede cattolica il governo di Pechino cerca di spingere i chierici ad iscriversi alla suddetta Associazione, che non troppo implicitamente propone “l’indipendenza” dalla Santa Sede.

Eredità questa, nella politica cinese, dell’esperienza di una Chiesa Cattolica debole e spaccata, come al tempo della “controversia dei riti”, nata agli inizi del Seicento sotto il pontificato di Gregorio VXI e che durò, è bene ricordarlo, quasi trecento anni, per poi cessare nel 1939.

Come si ricorderà, da una parte vi erano i gesuiti, che accettavano la permanenza del culto tradizionale dei morti secondo le antichissime tradizioni cinesi e locali, ma dall’altra vi erano i francescani e i domenicani, i quali pensavano che le pratiche del culto dei morti, essenziali nella simbologia e nella tradizione (anche politica) della Cina, dovessero essere radicalmente trasformate, in funzione della nuova, ma perfetta e unica, fede cattolica.

Ecco, la Cina, e qui il problema del suo comunismo è perfino marginale, teme ancora oggi di perdere “l’anima” e la sua identità profonda, mentre la Chiesa cattolica non può certo permettersi di trasformarsi, proprio in Cina, in una sorta di chiesa protestante, anche sottoposta, perfino nei riti, al potere politico.

E, certo, la penetrazione delle sette di tipo protestantico, spesso di tradizione americana, potrebbe qui divenire pericolosa sia per la Chiesa di Roma che, a maggior ragione, per il governo di Pechino. C’è poi la questione dei quattro sacerdoti della comunità non ufficiale di Zhangjiakou, nell’Hebei, che sono ancora detenuti in un luogo segreto, da parte della Polizia del Popolo. La questione, secondo le fonti cattoliche cinesi, ha avuto inizio alla fine del 2018. Frazionismo dei governi locali, conformazioni diverse del Pcc nelle varie regioni, una lotta per interposta persona tra centro e periferia, tutto questo potrebbe spiegare la diversità di approccio dei vari governi regionali alla questione del cattolicesimo cinese e della sua presenza ufficiale nella società (e anche nel sistema di potere) della Cina attuale.

Si teme un pericoloso concorrente nel gioco del potere, ma sarà bene chiarire, soprattutto sul piano politico, che il cattolico non ha un suo Stato, ma che esso è definito dalla parte della moneta in cui è inciso Cesare. Altro non v’è. E altro non è lecito adorare, da parte di un vero cattolico. Sempre, però, secondo alcune fonti del Vaticano, se pure Papa Francesco non ha nominato la questione dei sacerdoti detenuti nello Hebei, la “linea” del Vaticano potrebbe essere oggi quella di ritenere la Associazione Patriottica una organizzazione alla quale l’adesione dei vescovi e dei clerici è del tutto facoltativa.

Sempre nello Hebei, un sacerdote ha accusato il suo vescovo, monsignor Agostino Cui Tai, di voler “resistere” all’accordo sino-vaticano e ha perfino chiesto alla polizia di arrestarlo. Anche qui, piccoli regolamenti di conti interni, vecchie tensioni, oltre ai soliti rapporti personali critici, si inseriscono nel grande disegno della regolarizzazione della Chiesa Cattolica in Cina, come certamente accade anche da parte governativa.

Tutti i vescovi cinesi, comunque, quelli a cui Papa Francesco ha tolto la scomunica, sono per abolire la “Chiesa del Silenzio” e aderire, invece, e in massa, alla Associazione Patriottica. E se, riconoscendo il pieno diritto, da parte del governo di Pechino, di controllare l’attività politica della Chiesa cinese, si potesse pensare ad uno strumento ben diverso dalla Associazione Patriottica, che è l’evidente erede di una logica arcaica da Terza Internazionale, insieme al “Fronte Unito” e alle altre organizzazioni che controllano, in Cina, l’eterodossia politica, religiosa, culturale? Ecco di cosa potrebbero parlare, se si vedessero in Italia, Papa Francesco e il presidente Xi Jinping.

Ma, anche per questa trattativa, alla quale la Cina tiene moltissimo, c’è il nodo del rapporto con l’Italia. La stampa cinese fa notare come l’Italia, oggi, abbia sostanzialmente aderito al progetto Obor, ma che l’accordo si spera possa essere ufficialmente siglato proprio durante la visita di Stato di Xi Jinping. Se ciò non accadesse, l’offesa a Pechino sarebbe irreparabile.

Inoltre, è da notare che la stampa cinese pone oggi molto la sua attenzione sul “Gruppo Speciale di Lavoro in Cina”, una struttura  organizzata recentemente  dal governo di Roma e, in particolare, la Cina sottolinea il fatto che, sia la Grecia che il Portogallo, abbiano già accettato di far parte della Obor, senza che gli Usa abbiano avuto poi molto da ridire.

Certo, il rilievo strategico dell’Italia nel Mediterraneo è ben diverso da quello della Grecia; e la funzione geopolitica del Portogallo, per la Cina, riguarda unicamente la sua proiezione atlantica e il suo nesso storico con l’Africa Occidentale. Comunque, sempre per i media cinesi, la posizione del governo Conte è estremamente importante e, con ogni probabilità, Pechino moltiplicherà, sul piano mediatico, il successo che già oggi prevede di avere in Italia.

La reazione nervosa di Washington al progetto di adesione italiana all’Obor deriva poi, secondo gli analisti cinesi, dal fatto che l’Italia è un Paese determinante e centrale per la Ue, sia dal punto di vista economico che da quello geopolitico.

Se gli Usa, sottilmente ci fanno qui capire i cinesi, vogliono, alla fine, far saltare la moneta unica e indebolire la grande rete di dazi e protezioni che per loro è sostanzialmente la Ue, la Cina non ha comunque alcun interesse a minare la Ue né, tantomeno, a mettere in ulteriore crisi l’area dell’euro.

Poi, certamente, diminuirebbe, secondo le proiezioni economiche degli analisti cinesi, il flusso di beni e servizi che dall’Italia va verso gli Usa, ma a favore della Cina, mentre è probabile che, tra qualche tempo, si riproporrà la questione del 5G, e allora i cinesi potrebbero avere qualche chance in più. Con una evidente perdita di peso, quindi, degli Usa in Italia, che darebbe la stura ad una lunga serie di contromosse, durissime, da parte di Washington.

Sono oggi più di 60 i Paesi, tra cui già 12 europei, che hanno firmato un Memorandum di accesso, a qualsiasi titolo, alla rete di Obor. E qui si entra direttamente nel progetto che Xi Jinping ha esposto recentemente nelle “Due Sessioni” dell’Assemblea Generale del Popolo Cinese, che si svolgono sempre nelle prime due settimane di marzo.

Xi Jinping ha sottolineato, proprio nelle due sessioni di quest’anno, che è stato tolto il vincolo che prevedeva la non rieleggibilità, oltre il secondo mandato, di Presidente della Repubblica e di Segretario del Pcc, oltre che di presidente della Commissione Militare Centrale.

Il significato è chiaro: il mio potere rimane ed è stabile, forse fino al 2027; e quindi le molte aree frazioniste del Partito e dello Stato faranno bene a riallinearsi e a non dare troppo fastidio. Poi, Xi Jinping ha sottolineato, ancora una volta, l’importanza della campagna anti-corruzione, con 621 dirigenti civili e militari puniti nel solo 2018. Poi, ancora, Xi ha sottolineato la nuova presenza capillare dei comitati di Partito nelle imprese private cinesi, presenza che ha oggi raggiunto il 70% delle aziende, e Xi ha anche rimarcato la riduzione nettissima delle ONG operanti in Cina, passate da 7000 a sole 400, infine vi è la riaffermazione degli “errori” della propaganda occidentale e la riaffermazione dei pilastri della dottrina e della prassi del Pcc.

E questo, certo, ha molto a che fare con il rapporto tra il governo di Pechino e la Chiesa Cattolica. Sul piano della politica estera, Xi Jinping, oggi, dopo le “due sessioni”, tende a chiudere al più presto le trattative per un “Codice di Condotta Condiviso” tra Pechino e i dieci Paesi dell’Asean, mentre si espande il controllo cinese sui mari di Taiwan e di Hong Kong.

Pechino non conquisterà mai manu militari l’isola del Kuomintang, è bene chiarirlo, ma aspetterà che le sue trasformazioni politiche interne possano far arrivare ad una riunificazione de facto. E Pechino, inoltre, sa bene che un attacco a Taiwan permetterebbe soprattutto agli Usa di rientrare pesantemente nel quadrante continentale asiatico.

Per Xi Jinping, poi, e questo lo vedremo anche in Italia, la Cina deve impostare al più presto un modello, appunto, “cinese” di risoluzione di tutte le tensioni attuali, a livello internazionale, per far sì che Pechino possa diventare “contributore e promotore” insieme sia del libero scambio globale, in polemica con la politica commerciale degli Usa di Trump, sia del multilateralismo. Nelle “Due Sessioni”, il presidente Xi Jinping ha inoltre proposto “i cinque punti da studiare di Xi”. Essi riguardano soprattutto l’unità pacifica, facendo anche riferimento al fatto che Xi in cinese vuol dire anche “imparare, studiare, mettere in pratica”. L’unità pacifica è, come è facile immaginare, riferibile direttamente alla questione di Taiwan. Al quale verrà presto applicata la regola del “un solo Paese, due sistemi”.

E, nello Xingkiang, il governo di Pechino accetterà presto una missione dell’Onu, a patto che “non interferisca nelle questioni domestiche”.

 

 

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