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Nuovi guai per Trump. Cosa c’è dietro il nulla osta per Kushner chiesto dal presidente (secondo il Nyt)

Quattro fonti interne all’amministrazione statunitense hanno detto al New York Times che fu proprio il presidente Donald Trump a ordinare di concedere a suo genero Jared Kushner il nulla osta di sicurezza, ossia l’autorizzazione per accedere a informazioni e documenti top secret. Quella avanzata dalla Studio Ovale appena dopo l’insediamento era una richiesta piuttosto irrituale, perché Kushner – consulente della Casa Bianca con il principale merito di essere il marito della figlia prediletta del presidente, Ivanka Trump – non aveva mai avuto esperienza con faccende di sicurezza nazionale e intelligence internazionale come quelle a cui Trump voleva accedesse. E in effetti, raccontano le fonti del Nyt, la decisione di Trump si portò dietro diverse critiche irritate di vari funzionari, tanto che l’ex capo dello staff, il generale ritirato dei Marines John Kelly, dovette scrivere un memo interno per spiegare la scelta del presidente (pur restando tra i più scontenti).

Da mesi questa notizia striscia, ma finora i media americani non avevano mai pubblicato niente a proposito del coinvolgimento diretto di Trump – evidentemente mancavano conferme per renderla sicura, anche perché un mese fa proprio il presidente smentì, durante un’intervista concessa proprio al Nyt, di aver avuto un qualche ruolo nella vicenda. Per il momento la portavoce dalla Casa Bianca non ha né confermato né negato, ma se le fonti del giornale newyorkese dicessero il vero (e visto la rituale minuzia con cui certe notizie vengono verificate da questo genere di media) significherebbe che Trump non solo ha mentito alla stampa, ma ha anche concesso la security clearence – che rappresenta la possibilità di passare tutti i protocolli di sicurezza nelle strutture del governo americano – a uno che è soltanto suo genero.

La notizia del NYTimes arriva come una bomba (forse a orologeria) in un momento in cui Trump ha subito un danno di immagine personale internazionale dopo che i negoziati con la Corea del Nord sono naufragati e lui è rientrato dall’incontro col satrapo asiatico senza niente in mano, e l’ex avvocato-faccendiere del presidente ha spiattellato pubblicamente alcune vicende scottanti in cui Trump sarebbe coinvolto e certi suoi comportamenti malsani. La faccenda del nulla osta a Kushner (che sarà probabilmente approfondita da qualche commissione della Camera democratica, visto come i Dems stanno conducendo i lavori dell’ala bassa del Congresso) sembra l’ennesima conferma di come le metodologie con cui Trump manovra gli affari all’interno della Casa Bianca sono spesso irrituali, con il presidente che facilmente preferisce scavalcare consolidate procedure favorendo il lavoro con un team ristretto di elementi fidati (tra questi gli Ivankners, da sempre l’asset più futuribile del potere trumpiano).

Da qui, partono altre considerazioni, perché di fatto la clearence a Kushner può avere altri ordini di valore. Il genero-in-chief è infatti quel consigliere che Trump ha incaricato (più o meno formalmente e anche in questo caso con un buon livello di critiche e criticità) di gestire due grossi dossier: primo quello israelo-palestinese (perché la sua famiglia ha rapporti diretti con il premier Benjamin Netanyahu), secondo i rapporti con l’Arabia Saudita. Il fascicolo saudita è un ottimo paradigma per comprendere la situazione generale.

In questi giorni, per esempio, JK è impegnato in un importante e lungo tour che va dalla Turchia ai paesi del Golfo, con appuntamenti centrali in Qatar, Emirati Arabi e Arabia Saudita. Alla corte di Riad trova il suo amico Moahmmed bin Salman (MbS), erede al trono che sta riscrivendo la storia del regno attraverso politiche visionarie che però passano per un braccio di ferro per la conquista completa del potere interno (e delle sue proiezioni all’estero) spietato e senza sconti. Da quel che è noto, Kushner – anche per una ragione anagrafica, soprattutto per comunanza di visione generale del mondo – ha stretto un ottimo rapporto personale con bin Salman, e anche per questo il presidente Trump s’è fidato di lui fin dai primi mesi della presidenza per gestire l’enorme pratica di riavvicinamento con Riad, grande alleato mediorientale, fondamentale partner economico soprattutto adesso che il principe sta trasformando il paese in qualcosa di diverso dal grande pozzo petrolifero che è stato finora.

A dicembre dello scorso anno, quattro delle firme di punta del Nyt scrissero un articolo molto informato che sembra un estratto di cronaca in questi giorni in cui Kushner è impegnato in contatti con sensibili governi stranieri per conto della Casa Bianca ed escono notizie sul suo nulla osta di sicurezza. Si parlava delle preoccupazioni che i funzionari dell’intelligence americana hanno sul rapporto personale col saudita. Temono che Kushner, inesperto nel gestire questioni politiche e ancora di più faccende di politica internazionale che hanno a che vedere con la proiezione strategica americana, possa finire per essere incartato da MbS, molto più sgamato dell’americano (va da sé che per estensione questo può succedere ad Ankara come ad Abu Dhabi o a Doha).

I sauditi hanno iniziato il corteggiamento del genero presidenziale da molto tempo, da prima dell’inaugurazione di Trump, quando una delegazione viaggiò a Washington per incontrare Kushner (contatti facilitati anche tramite l’ambasciatore emiratino negli Stati Uniti, Youssef Otaiba un personaggio molto assertivo nelle faccende washingtonian, a cui l’amico di Trump Tom Barrack aveva presentato il genero di Trump; “Uno che segue la nostra agenda” diceva Barrack a Otaiba).

Anche per questo Kelly, appena diventato Chief of Staff (s’è dimesso a inizio dicembre 2018) reintrodusse come obbligatoria una vecchia pratica: a ogni contatto tra Kushner e MbS doveva essere presente qualche membro del Consiglio di Sicurezza nazionale, in modo tale da registrare ciò che succedeva ed eventualmente intervenire a sostegno del marito di Ivanka (in realtà, scriveva il Nyt, “Jared e Mohammed” continuarono a scambiarsi messaggi e ad avere conversazioni personali al di fuori dello schema). Secondo alcune ricostruzioni pubblicate su queste colonne grazie a una fonte discreta ben informata sui dossier sauditi, certe mosse indirizzate dal Congresso contro l’Arabia Saudita sono state pensate proprio in questo senso: non c’è mai stata l’idea di modificare la strategia delle relazioni, Riad rimarrà sempre un ottimo alleato per Washington, ma l’intento dietro ad alcune risoluzioni congressuali critiche coi sauditi – come quelle sulla guerra in Yemen o sul caso Khashoggi (di cui le intelligence americane incolpano MbS, mentre Kushner è il principale dei suoi difensori a Washington) – avevano l’obiettivo di mandare un messaggio verso un riequilibrio del sistema di relazioni che Trump ha appaltato completamente nelle mani del genero e che invece i congressisti, gli apparati di sicurezza e le intelligence vogliono gestire in modo più classico.

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