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Perché la visita di Xi Jinping in Italia sarà un banco di prova per il governo

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La visita del presidente Xi Jinping nel nostro Paese – membro fondatore della Nato e della Ue – avviene in una cornice piuttosto delicata per la politica internazionale e domestica. Gli Stati Uniti segnalano che gli obiettivi di Pechino in ambito tecnologico e militare rappresentano una minaccia strategica per alcuni gangli vitali, quali “il controllo dei dati” e gli snodi marittimi, come il mare della Cina meridionale, su cui si fonda l’egemonia globale americana. La Ue, pur riconoscendo ancora Pechino come un partner con cui condividere vari interessi sullo scenario internazionale, identifica la Cina come un rivale sistemico per la sua espressa volontà di revisionare la governance globale in direzioni non compatibili con quelle dell’Unione. A ciò si aggiunge il clima elettorale che, in vista delle prime elezioni europee post-Brexit, vede i campioni dell’integrazione europea impegnati a difendersi dalla crescente marea delle forze revisioniste intenzionate a cambiare forme e sostanza dell’Unione.

Come si è detto in precedenza, la Belt and Road Initiative – inserita di recente nello statuto del Partito comunista cinese – è una riorganizzazione degli spazi dell’Eurasia funzionale al “rinascimento” della nazione cinese. In questo contesto il governo gialloverde ha deciso di firmare il Memorandum sulla Belt and Road Initiative (Bri) con la Repubblica Popolare Cinese. Si comprende che la firma del MoU assume una connotazione politica decisamente rilevante e che, come alcuni esponenti del governo hanno sottolineato, essa apre un panorama più ampio rispetto a quello dei meri interessi economici.

Nessuno può realmente credere infatti che la firma del MoU sulla Bri abbia la capacità di correggere le carenze strutturali del sistema Italia e moltiplicare le cifre del nostro export verso la Cina. Come ha sottolineato Mats Harborn, presidente della Camera di Commercio europea in Cina, il MoU dimostra infatti solo la volontà del governo italiano di supportare la Belt and Road nient’altro. Il mercato cinese è ormai molto competitivo, dice Holrborn, e peraltro il governo cinese ha già promesso accessi privilegiati a diversi interlocutori, Stati Uniti in primis. Inoltre come ha dichiarato il presidente di Federlogistica-Conftrasporto Luigi Merlo, utilizzare il crescente traffico marittimo con l’Estremo Oriente come giustificazione per motivare l’adesione dell’Italia alla Via della Seta è una grossa semplificazione: “se fosse vera questa tesi” dice Merlo “ogni grande nazione dovrebbe gestire un porto o la ferrovia nei Paesi con cui commercia. Non si capisce per quale motivo l’unica condizione per incrementare i traffici con la Cina dovrebbe essere quella di cedere pezzi di sovranità del nostro Paese. Regole comuni, libero scambio, accordi doganali, reciprocità, lotta alla contraffazione, infrastrutture adeguate: questo dovrebbe favorire gli scambi indipendentemente da chi gestisce le infrastrutture”.

Interpretare dunque la firma del MoU come uno strumento di politica economica non soltanto risulta poco convincente ma rischia peraltro di suscitare aspettative ipertrofiche nei riguardi di Pechino creando al contempo tensioni con i tradizionali alleati italiani. Ad aprile la Nato festeggia i suoi 70 anni. Cinquant’anni fa, nel 1969, l’allora ministro degli esteri Pietro Nenni si recava a Washington per festeggiare i venti anni dell’Alleanza atlantica. Erano passate poche settimane dall’avvio dei negoziati tra italiani e cinesi per il reciproco riconoscimento diplomatico, decisione che avrebbe rafforzato Pechino e indebolito il fronte americano a favore di Taiwan all’Onu. “Se ci sputate negli occhi non diteci che sta piovendo” disse a Nenni l’allora Segretario di Stato Rogers. Il richiamo servì in qualche modo a ricalibrare le generose avance fatte dal governo italiano nelle prime settimane e impostare il negoziato con Pechino in modo più conforme agli interessi del nostro paese e alla sua specifica collocazione internazionale in quella fase storica.

Sin dalla fondazione della Repubblica Popolare Cinese nel 1949 l’Italia si è impegnata a favorire una maggiore integrazione e partecipazione della Cina e del suo popolo alla comunità internazionale. Le aperture di Nenni si inserivano in questa tradizione. Lo stesso sarebbe avvenuto dopo l’avvio della riforma economica denghista: l’Italia dagli anni ’80 in poi ha sempre seguito una linea di apertura e cooperazione amichevole nei confronti di Pechino.

Ma se durante la Guerra fredda la Cina serviva a Washington come baluardo asiatico contro Mosca, e fino a ieri era utile all’Occidente per abbattere i costi della globalizzazione, oggi invece diventa una minaccia strategica per Washington e sistemica per l’Europa: il successo politico del MoU sulla Belt and Road dunque si misurerà dalla capacità del governo di trovare una collocazione indipendente e efficace all’incrocio tra due tradizioni della politica estera italiana, quella che ci lega all’Occidente attraverso la Nato e la Ue e quella della tradizionale politica di apertura nei confronti di Pechino.

Il testo del MoU negoziato dal governo sembrerebbe un segnale incoraggiante in questa direzione. Si tratta di un testo molto più ‘europeo’ rispetto ad esempio al comunicato congiunto co-firmato nel 2017 dal precedente governo in seguito alla partecipazione al primo Belt and Road Forum di Pechino (nel quale tra le altre cose si faceva riferimento proprio alla ‘comunità dal destino condiviso’, ossia la proposta cinese di revisione della governance globale avversata dalla Ue).

Come si è ipotizzato, dopo un primo periodo di incubazione, la Bri potrebbe infatti accingersi ad entrare in una fase più matura. Da un lato le negoziazioni commerciali con gli Usa rafforzano le posizioni negoziali dei paesi lungo la Bri. Dall’altro in una fase di contrazione della crescita la Cina dovrà necessariamente avviare una razionalizzazione degli investimenti esteri e ciò potrebbe aprire degli spazi importanti a Paesi industrialmente solidi come l’Italia sia nel senso di una migliore qualità dell’investimento da parte cinese sia anche nel quadro della cooperazione con aziende cinesi per investimenti congiunti nella regione eurasiatica.

Se l’iniziativa italiana favorirà questo processo, dando maggiore trasparenza alla Bri e rendendola più aperta alle aziende italiane e europee – essa potrà smussare i tratti egemonici della Bri e proporre il nostro Paese come nuovo asse attivo di connessione tra i traffici asiatici e l’Europa, ritrovando cosi il suo ruolo naturale all’interno di un Mediterraneo ormai tornato perno centrale del commercio mondiale. La visita del presidente Xi Jinping in Italia è dunque una visita storica e un fondamentale banco di prova per la capacità politica e l’indipendenza di questo governo.

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