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Sicurezza e cooperazione internazionale. Il binomio spiegato al Salone della Giustizia

Sicurezza e autoreferenzialità sono due nemici irrimediabili. La disruption tecnologica ha introdotto nuove minacce cui Stati, organizzazioni internazionali, imprese e singoli individui non possono rispondere da soli. Questo il messaggio lanciato dal Salone della Giustizia al Parco dei Principi di Roma, manifestazione giunta alla sua decima edizione, nel corso del penultimo panel della tre giorni: “Sicurezza nazionale e cooperazione internazionale”. Un parterre d’eccezione chiamato ad avanzare, incalzato dalle domande della vice-direttrice del Corriere della Sera-Roma Fiorenza Sarzanini, una ricetta onnicomprensiva per far fronte alla sicurezza nazionale. Dal capo della Polizia Franco Gabrielli all’attaché legale dell’FBI a Roma Kieran Ramsey passando per l’ex direttore dello Shin Bet Jacob Perry e il presidente di Deloitte Ciro Di Carluccio un monito in coro: non c’è sicurezza senza cooperazione internazionale. Per dirla con Paolo Messa, direttore delle Relazioni istituzionali di Leonardo che ha aperto i lavori, “l’innovazione tecnologica impone la ricerca di una strategia complessiva che non si fermi ai confini nazionali ma faccia affidamento su partnership e alleanze”.

La riflessione è di sconcertante attualità. La visita ufficiale del presidente cinese Xi Jinping in Italia conclusasi due settimane fa con la firma del memorandum sulla Belt and Road Initiative ha riportato al centro del dibattito pubblico la sicurezza degli investimenti e delle infrastrutture critiche.

Un risveglio tardivo per il prefetto Gabrielli. “Sulla protezione delle infrastrutture critiche non siamo al Giurassico ma poco ci manca – scherza il capo della Polizia – non sempre l’individuazione delle strutture fondamentali per la sicurezza del Paese è ritenuta una questione fondamentale”. L’interesse nazionale non è compatibile con l’autarchia, è l’affondo di Gabrielli: “affrontare tematiche complesse come il 5G con un approccio settoriale è pericoloso”.

L’innovazione tecnologica ha avuto un impatto dirompente anche sulla politica internazionale e sugli strumenti con cui gli Stati fanno fronte alle minacce contro la sicurezza nazionale. “La prossima guerra in Medio Oriente sarà cibernetica – prevede caustico Perry, già n.1 dello Shin Bet, l’agenzia dei servizi segreti interni israeliani – Israele è ogni giorno sotto attacco da parte di organizzazioni terroristiche con capacità cyber in grado di paralizzare la democrazia”. Una nota positiva: “Fino a due anni fa il pubblico americano ed europeo non erano consapevoli di queste minacce, oggi la cooperazione fra Stati, organizzazioni internazionali e società civile sul tema è aumentata e così la consapevolezza di queste minacce”.

Gli fa eco l’ambasciatore di Israele in Italia Ofer Sachs, che prende in prestito il caso dell’accordo sul nucleare iraniano del 2015 (JCPOA), inviso a Tel Aviv dal giorno uno. “Ci sono tanti volti della sicurezza che furono ignorati con quell’accordo – spiega il diplomatico – ha aumentato senz’altro i controlli sull’arricchimento dell’uranio ma ha sottovalutato altre attività dell’Iran, dagli attacchi cyber al finanziamento del terrorismo e della propaganda oltreconfine”.  Un errore di calcolo che ha avuto un alto prezzo da pagare: “l’avventurismo all’estero è aumentato, il programma balistico cresciuto, l’intera regione è ricrollata in una corsa alle armi”.

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