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Gas, rubli e propaganda. Così Putin si sta prendendo i Balcani

In politica, come per l’arte, la prospettiva fa la differenza. Vista da fuori, la Russia di Vladimir Putin non dà l’impressione di una superpotenza in grado di competere sul piano militare con Cina e Stati Uniti o su quello commerciale con l’Unione europea. A uno sguardo da vicino, o meglio dall’“Estero vicino”, espressione di sovietica memoria che in dottrina militare russa indica le ex repubbliche Urss e gli Stati transcaucasici, la percezione cambia, radicalmente. Un report del think tank German Marshall Fund rivela una rampante russificazione della regione, e in particolare di tre Paesi balcanici: Serbia, Bosnia-Erzegovina e Macedonia. Il trend è degli ultimi anni, e deve molto all’impegno del governo russo nel diffondere una narrativa pro-Cremlino facendo leva su divisioni e dubbi già radicati nelle rispettive società. Gli strumenti sono noti ai più. Si parte dai giganti mediatici russi che nei Paesi menzionati vantano una rete non indifferente, Sputnik sopra tutti, all’infinita ramificazione di media locali che contribuiscono ad allargare la foce rilanciando la narrazione filorussa. Poi ci sono le fondazioni, le associazioni culturali. E i partiti politici locali, talvolta anche governativi, che fanno perno sulla crescente insofferenza della regione verso un processo di adesione all’Ue e alla Nato sempre più estenuante. Non si tratta di “dare la colpa alla Russia”, spiega in apertura il report di Asya Metodieva, ma di fotografare una realtà di fatto, dati alla mano. Eccone uno. Secondo un sondaggio di Balkan Barometer del 2017, in Serbia solo il 26% della popolazione guarda con favore all’appartenenza Ue. In Bosnia-Erzegovina e Croazia la percentuale si alza di poco, rispettivamente al 30 e 31%, mentre in Macedonia non si spinge oltre il 54%. Tanti i fattori cui si deve la perdita del “potere talismanico” targato Nato e Ue. “Ci sono diverse tattiche ibride che la Russia utilizza per confondere e creare divisioni – dice a Formiche.net un’alta fonte della Nato che preferisce l’anonimato – noi offriamo con discrezione ai Paesi che ne fanno richiesta strumenti per contrastare la disinformazione, lo abbiamo fatto lungo tutto il processo del referendum in Macedonia”.

GAS, RUBLI E OLIGARCHI

La propaganda filo-russa è solo una faccia della medaglia. L’altra è fatta di investimenti, modesti in termini assoluti, determinanti in termini relativi. La Serbia di Vucic è in cima alla lista degli euroscettici e soprattutto dei beneficiari dei rubli dal Cremlino. Nella sua visita di gennaio a Belgrado Putin ha annunciato un investimento da parte di Gazprom di 1.4 miliardi di dollari entro il 2025 per costruire il tratto serbo del gasdotto TurkStream. L’obiettivo, ha detto il presidente russo, è far lievitare l’export di gas in Serbia a 3.5 miliardi di metri cubi entro il 2020. L’anno precedente il governo russo ha donato a Belgrado sei jet da combattimento MiG-29 e promesso di consegnare trenta carri T-72 e altri trenta carri armati. A far da trait-d’union non di rado c’è la Chiesa ortodossa serba, da sempre legata alla controparte russa e frequente destinataria di donazioni da parte di Mosca. La più recente è una tranche di 5 milioni di euro da parte di Gazprom, vera macchina diplomatica del Cremlino nei Balcani. Più di basso profilo la strategia adottata in Macedonia, dove ai trasferimenti governativi sono preferite le donazioni private degli oligarchi. È avvenuto in occasione del cruciale referendum di settembre per cambiare nome al Paese. In quell’occasione, secondo una denuncia dell’ OCCRP (Organized Crime and Corruption Recording Project), Ivan Saviddi, miliardario russo residente in Grecia già membro del Parlamento e considerato molto vicino a Putin e alla Chiesa Ortodossa russa, avrebbe donato una cifra fra i 300.000 e i 350.000 dollari ai politici, militanti e hooligans che hanno messo in piedi la protesta di boicottaggio di fronte al Parlamento di Skopje. La denuncia è stata rilanciata sui principali media internazionali, senza destare l’interesse del primo ministro Zoran Zaev, che ha sempre negato interferenze russe alle urne.

SPUTNIK &CO: LA MACCHINA DELLA PROPAGANDA

La penetrazione della narrazione filo-governativa russa nell’ecosistema mediatico dei Balcani ha subito una brusca accelerazione a partire dall’annessione della Crimea nel 2014. Sputnik, la principale agenzia governativa assieme a RT (Russia Today), vanta una presa senza paragoni nella regione. È ufficialmente approdata in Serbia nel 2015, e in quattro anni ha messo radici profonde a Belgrado. L’effetto eco che ne ha fatto una delle più ascoltate fonti di informazioni del Paese è servito da centinaia di media locali, pronti a rilanciare (spesso senza citare la fonte) i servizi dell’agenzia russa. “Blic, Kurir, Informer, Vecernije Novosti e B92 sono i portali che più spesso ripubblicano contenuti di Sputnik” spiega il report del GMF. Il risultato, aggiunge Nemanja Stipljia, ricercatrice dell’European Western Balkans, è che “non esiste una parte della Serbia dove non si possa ascoltare Sputnik, alcune radio locali rilanciano le sue trasmissioni quattro volte al giorno. Se vivi in un piccolo villaggio puoi ascoltare solo Radio Sputnik”. Non cambia il discorso per la Bosnia-Erzegovina. Lì, soprattutto nella Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina (Srpska), una delle due entità che costituisce il Paese, l’agenzia russa gode della stessa fama, anche nei mainstream media. “L’agenzia SRNA – scrive la Metodieva – presenta spesso i report di Sputnik come fossero suoi”, e così fanno media locali come Infosrpska o Krajina. In Macedonia Sputnik è meno presente, ma degnamente sostituito da una miriade di emittenti e siti online filorussi e filoserbi come Pravda, Srpski Telegraf e Informer, “specializzati a sollevare dubbi sul ruolo dell’Ue e della Nato nella regione”.

NATO E UE NEL MIRINO

La narrativa filorussa non plana a picco sul panorama mediatico dei Balcani, ma si assicura un dolce atterraggio facendo leva su fratture sociali e politiche aperte da anni. In Serbia, dove il terreno politico è particolarmente fertile, è la disputa sul Kosovo ad attirare le attenzioni dei media filorussi, seguita, secondo il report del Gmf, dalla crisi ucraina e la guerra in Siria. A questo si aggiunge un bombardamento mediatico per ravvivare la dolorosa memoria dei bombardamenti Nato nel 1999, operazione cui si presta volentieri l’élite politica di Belgrado e lo stesso Vucic, “il politico più citato da Sputnik nella regione”. Il risultato è un diffuso sentimento anti-Nato e una crescente disaffezione verso l’Ue che, ha detto Putin in visita a gennaio, ha costretto la Serbia a “una scelta artificiale” fra Russia e Occidente. In Bosnia ed Erzegovina il racconto degli outlet filorussi fa perno soprattutto sulle istanze secessioniste della Repubblica serba di Milorad Dodik, amico di Putin e del ministro degli Esteri Sergej Lavrov, convinto avvocato della rimozione delle sanzioni Ue contro Mosca. Quanto alla Macedonia, la propaganda degli ultimi mesi ha avuto nel referendum di settembre una climax senza precedenti. Nel 2017 un leak di documenti di intelligence ha rivelato il finanziamento dell’ambasciata russa a Skopje di alcuni media locali e oltre trenta organizzazioni culturali. La campagna di boicottaggio è stata particolarmente attiva sul web. Alla vigilia del voto l’hashtag #boycott aveva ricevuto più di 24.000 menzioni, spiega il report. A dar manforte ancora una volta Sputnik, con titoli di questo calibro: “La Nato vuole vedere il sangue nelle strade della Macedonia” per un progetto di una “Grande Albania”.

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