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Sanzioni, F-35 e Patriot. Tutte le mosse degli Usa per risolvere la questione turca

Dopo l’Iran, il nodo mediorientale per l’amministrazione targata Donald Trump è la Turchia. L’acquisto del sistema russo S-400 non va già agli Stati Uniti, soprattutto ora che il presidente Recep Tayyip Erdogan (pur rivolgendo parole dolci al collega americano) ne conferma l’arrivo in territorio turco nella prima metà di luglio. Da Washington rispolverano così l’idea di imporre delle sanzioni allo storico alleato. Lo strappo pare irrecuperabile anche se, la prossima settimana, due appuntamenti internazionali (la ministeriale Nato e il G20 in Giappone) offriranno occasioni per faccia-a-faccia di alto livello, tra ministri della Difesa e presidenti. Il dossier chiama in causa i rapporti strategici e gli armamenti. Dopo lo stop ai piloti turchi per l’addestramento in Arizona, la credibilità dell’esclusione dal programma F-35 è aumentata e sembra essersi fatta sentire ad Ankara.

IL TENTATIVO DI ISMAIL DEMIR

La Turchia prova infatti la contromossa e si affida (con scarsa probabilità di successo) al carattere internazionale del programma Joint Strike Fighter. Il tentativo arriva da Ismail Demir, capo del direttorato industriale della Difesa turca. “Nessun Paese del programma può dire a un altro che non lo vuole e rimuoverlo dal programma”, ha affermato. “Non rientra nell’accordo – ha aggiunto – il progetto F-35 è una partnership e in nessuna parte dell’accordo c’è il permesso alla rimozione unilaterale di un Paese”. È l’ultimo passo di un’escalation crescente registrata sul dossier nell’ultimo periodo.

L’ESCALATION

I toni sono tornati incandescenti la scorsa settimana, quando l’ormai ex numero uno del Pentagono Patrick Shanahan ha inviato al collega Hulusi Akar una missiva con un vero e proprio ultimatum: o Ankara rinuncia all’S-400, oppure i piloti e i tecnici turchi attualmente negli Usa per addestrarsi sui caccia di quinta generazione (circa una quarantina) dovranno lasciare il Paese entro il 31 luglio. A stretto giro è arrivata la risposta piccata di Akar, secondo cui la lettera non aveva i toni di un rapporto tra alleati della Nato. Eppure, poche ore dopo ecco la notizia dell’interruzione dell’addestramento per i turchi presso la base di Luke, in Arizona, dell’Aeronautica americana.

UNA SETTIMANA DECISIVA?

A poco è servita la telefonata tra i due ministri della Difesa, se non a confermare un faccia-a-faccia la prossima settimana, quando a Bruxelles andrà in scena la riunione con i colleghi dell’Alleanza Atlantica. Allora Akar si ritroverà però di fronte Mark Esper, nuovo segretario pro tempore alla Difesa Usa dopo il recentissimo passo indietro di Shanahan per la conferma alla guida del Pentagono. Parallelamente, poco dopo, Erdogan e Trump si ritroveranno al G20 in Giappone, lo stesso per cui si vociferava di un incontro bilaterale tra i due per risolvere l’intricata questione, incontro ora confermato dal presidente turco.

I DUBBI DI ANKARA

La situazione per Ankara è complicata. Se lo strappo con Washington è evidente, così come la volontà di dotarsi dell’S-400, pare altrettanto chiara l’intenzione di non rinunciare agli F-35. Con un piano per 100 velivoli (di cui quattro consegnati) e una partecipazione industriale di tutto rispetto, la Turchia ha puntato sul velivolo per il futuro del proprio potere aereo, tra l’altro da inserire nelle note ambizioni di potenza più che regionale. In tal senso sono probabilmente da interpretare le parole di Ismail Demir. Il governo guidato da Erdogan non vuole uscire dal programma. Lo stesso presidente aveva rivolto parole di elogio al velivolo realizzato da Lockheed Martin lo scorso dicembre, proprio mentre cresceva la tensione con Washington per il dossier S-400.

UN CACCIA FATTO IN CASA

Neanche il progetto TF-X per il nuovo jet prodotto dall’industria nazionale, presentato in grande stile al salone parigino di Le Bourget, garantisce tranquillità alle Forze aeree turche nel caso di uscita dal Joint Strike Fighter. Si tratta di un programma di sviluppo ancora nelle fasi iniziali, tra l’altro considerato particolarmente costoso in un momento in cui l’economia turca preoccupa tutto il mondo finanziario. Punta al primo volo nel 2025 e ad entrare in servizio nel 2028, in ogni caso in una fascia inferiore rispetto al già pronto velivolo di quinta generazione.

LA MINACCIA DI SANZIONI

Gli Stati Uniti contano così a un ripensamento da parte di Ankara, anche se l’arrivo dell’S-400 è ormai considerato imminente. La linea dura del segretario di Stato Mike Pompeo le ha provate tutte, compresa la minaccia del ricorso alle sanzioni previste dal Countering America’s Adversaries Through Sanctions Act (Caatsa), ipotesi che ha già provocato effetti negativi sulla lira turca e che comunque resta in piedi. Ieri, il vice segretario per gli affari politici e militari Clarke Cooper ha così spiegato in conferenza telefonica con la stampa europea: “È giusto dire che il segretario Pompeo sta esaminando l’ampiezza e la profondità di ciò che potrebbe essere compreso nelle sanzioni alla Turchia nel corso del confronto con sull’acquisizione della S400”. Una soluzione della disputa, ha spiegato ancora la Cooper, “resta nel campo del reale al momento, eppure, giunti a questo punto, l’imposizione di sanzioni rimane una linea di condotta possibile e molto valida”. Non per Erdogan, che considera le sanzioni “impossibili”. Le relazioni con Trump? “Sono in uno stato che posso definire molto buono. In caso di problemi, ci telefoniamo immediatamente”.

INTEROPERABILITÀ E IPOTESI PATRIOT

Eppure la questione per Washington è sempre la stessa. “Non c’è nessuno spazio per nessuno di noi (Paesi membri dell’Alleanza Atlantica, ndr) di introduzione di capacità non-Nato, o russe in particolare, nell’ecosistema della Nato”, ha rimarcato la Cooper, aggiungendosi ai tanti messaggi già arrivati da vertici militari e alti funzionari americani. “La Turchia lo sa; che accetti o meno la realtà è un altra questione”. D’altra parte, gli Usa hanno da tempo presentato ai turchi un’opzione valida per la difesa aerea: il sistema missilistico Patriot. La proposta, ha notato concludendo la vice segretario, “resta sul tavolo da parte degli Usa e di altri partner della Nato”.

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