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Dazi Usa-Cina. Il pressing (controllato) di Trump

Il presidente statunitense, Donald Trump, rilancia con la Cina. Annuncia nuovi dazi a partire da settembre a valle dell’ultimo round di negoziati sul commercio, evita di calcare sulle dolenti note del dossier hongkonghese, ma manda aerei sopra Taiwan. Scelte che dimostrano quanto sia complesso il confronto globale tra le due super potenze.

NUOVI DAZI

Trump ha annunciato ieri che dal primo settembre la sua amministrazione intende imporre nuove tariffe del 10 per cento su 300 miliardi di dollari di beni importati dalla Cina ogni anni. Questo significa che, aggiunte alle misure già in vigore, l’intero export cinese negli Usa verrà colpito dalle sciabole della trade war. Breve recap: a maggio gli Stati Uniti hanno passato le tariffe doganali dal 10 al 25 per cento su altri 200 miliardi di dollari, portandoli alla stregua dei primi 50 miliardi designati l’anno scorso con tributi identici. La decisione che Trump ha annunciato ieri su Twitter (con un lancio piuttosto elettorale), è arrivata a chiusura dell’ultimo di una serie di dialoghi tra delegati di Cina e Stati Uniti — tenuto a Shangai ed evidentemente chiusosi con un nulla di fatto.

Secondo l’americano, i cinesi non hanno fatto abbastanza. Nei mesi passati s’era arrivati quasi a un’intesa, in cui Pechino metteva sul piatto non solo la riduzione dello sbilancio commerciale, ma anche misure su quel che riguarda il furto di proprietà intellettuale, la concorrenza sleale e una serie di atteggiamenti considerati scorretti con cui il Dragone spinge la propria economia (tipo il trasferimento forzato di know how nel caso di joint venture con ditte in Cina). Poi, a pochi passi da un compromesso storico, i cinesi si sono tirati indietro. I contatti s’erano praticamente sospesi fino al G20 di Osaka, dove (come già successo a Buenos Aires) Trump aveva riavviato le trattative alla fine di un faccia a faccia con l’omologo Xi Jinping, nel quale era stata congelata l’applicazione di nuove misure. Ora Trump le annuncia e dichiara Xi inadempiente agli impegni presi, spiegando che continuerà a aumentare i dazi sui beni cinesi finché non ci sarà un accordo — sempre ieri sera, appena chiuso un comizio a Cincinnati (Ohio), ha detto che i dazi potrebbero aumentare al 25 per cento più avanti.

DOSSIER HONG KONG E TAIWAN

Nel quadro delle relazioni Usa-Cina, che sul terreno commerciale trovano sfogo guerresco, ci sono un paio di altre cose che val la pena sottolineare. Per esempio la questione Hong Kong. L’argomento è delicatissimo, Pechino non riesce a controllare le proteste scoppiate per la promozione di una legge sull’estradizione, ma concentrate contro l’eccessiva cinesizzazione del Porto Profumato. Un argomento intoccabile per il governo cinese, su cui Trump non calca la mano. Per esempio, anche ieri (dal palco di Cincinnati) ha usato la parola “riots”, rivoltosi, per definire i manifestanti che si oppongono all’accelerazione che il governo centrale sta dando al processo di inclusione hongkonghese — con successiva erosione dello status di semi-indipendenza. La stessa parola usata dalla retorica con cui l’esecutivo cinese cerca sminuire il senso delle proteste; a cui Trump ha aggiunto un passaggio in cui indica la questione come un problema cinese da cui starne fuori (mentre la Cina, tra l’altro, accusa la Cia di aver allungato la mano dietro le manifestazioni). Non è una novità. Il Financial Times qualche settimana fa aveva scritto un articolo informato in cui riportava di una promessa fatta da Trump a Xi durante l’ultimo G20: non calcherò la mano su Hong Kong. Risultato, il 2 luglio il console generale americano a Hong Kong ha fatto saltare, su invito ricevuto da Washington, un discorso sulla “progressiva erosione delle libertà sul territorio cinese”.

Possibile sia un tentativo per tener aperto un canale di contatto? Una sorta di bastone e carota? In fondo Trump stesso ha twittato sul senso di fiducia che ripone sul futuro delle relazioni. Ma il dossier è strettamente collegato, per questioni di carattere politico e geopolitico, con quello che riguarda Taiwan, con cui l’amministrazione Trump invece ha particolarmente stretto le relazioni anche sul piano militare facendo infuriare Pechino. Taipei è considerata una provincia ribelle dalla dottrina del Partito Comunista di governo, e la Cina di Xi ha apertamente ammesso di voler riannetterla anche con la forza. E le future elezioni in cui la presidente in carica indipendentista amica degli Usa potrebbe essere rieletta sono un elemento di turbamento per Pechino. Su cui si sovrappone Washington. Nei giorni scorsi diversi velivoli militari taiwanesi e americani hanno pattugliato lo stretto che divide l’isola dalla Cina continentale per monitorare — e mandare un messaggio di presenza — le esercitazioni cinesi nell’area che Pechino considera un inviolabile cortile domestico.

(Foto: Twitter, @mike_pence)

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