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Ma se il premier si dimettesse prima del voto di sfiducia… L’analisi di Pisicchio

Lunedì 27 maggio 2019. Dopo l’indiscutibile successo elettorale della Lega alle europee, Salvini convoca una conferenza stampa e dichiara chiusa la stagione di collaborazione con i Cinque Stelle, commentando: “Non rinnego quello che ho fatto perché la priorità era dare un governo al Paese. Abbiamo fatto e sostenuto lealmente un governo e approvato alcune buone leggi, prima fra tutte quella che ha fermato gli sbarchi degli immigrati. Ma noi e i grillini siamo troppo diversi. Dunque dichiaro chiusa la nostra collaborazione e mi rimetto al giudizio degli italiani. Italia the first!”.

Questo discorso, tradotto dal salvinese in uno stile ministeriale in onore dei nostri lettori pudichi, è più o meno quello che abbiamo ascoltato nelle spiagge toccate dal tour della maggiore rock star italiana nonché ministro dell’Interno, nonché vicepremier, nonché capo della Lega, nonché Capitano e testimonial di felpe delle Forze Armate. Ma l’abbiamo ascoltato solo qualche ora fa e non settantadue giorni fa.

L’abbiamo ascoltato dopo che aveva messo in cassa ancora due risultati personali, con il valore, stavolta di una fiducia di rango parlamentare: il voto – niente affatto scontato – del decreto immigrazione bis, e quello sulle mozioni pro-Tav. Queste ultime, poi, addirittura con un’adesione solidale di due terzi del Parlamento. Ingenuità vicino alla sindrome catatonica dei grillini, direbbe qualche dotto osservatore. Ma anche azione progettata a tavolino, con qualche sbavatura addirittura “bizzarra” (ça va sans dire), come le dichiarazioni a nome del governo nell’aula del Senato, di due sottosegretari, l’uno leghista (non investito del ruolo di portavoce in quel momento) che parla per sostenere esplicitamente le posizioni della Lega e l’altro, grillino, che si rimette al voto d’aula.

Episodio tutto sommato minore nella catena di incongruenze e insulti istituzionali messi in campo in questo anno e mezzo di legislatura: sembrava persino una farsa concordata tra gialli e verdi. Invece no: con l’inspiegabile ritardo di settantadue giorni Salvini ha fatto la sua mossa per andare al voto. Ci andrà così facilmente? Lo vedremo nel giro di qualche giorno. Al netto della contabilità dei tempi per esaudire il desiderio delle urne ad ottobre, che tanto sta appassionando i commentatori, facciamo solo qualche domanda. La prima. Che si sarebbe andati a votare nel giro breve era cosa “cognita” e, se permettete, scritta e riscritta su queste colonne digitali da me medesimo a partire dal cinque marzo 2018. Il punto è: a chi conviene il voto così ravvicinato? A Salvini, sicuramente e alle sue propaggini, il fondatore del nuovo partito dei contadini (roba sovietica inventata dal Pcus) Toti e la Meloni che s’offre da tempo alla collaborazione con il leader leghista.

Non a Berlusconi, che trasfonde ormai più dell’Avis il suo sangue azzurro al Capitano; non al Pd, che è in una difficile fase di riorganizzazione e che potrebbe subire, sotto la sferza di uno show down elettorale, anche una scissione dei centristi; certamente non ai Cinque Stelle, che sono nella fase peggiore della loro esistenza parlamentare. Non ai parlamentari, che, per quanto ridotti ad insignificanza politica, hanno di fronte lo spauracchio di un turn over che ad ogni giro cambia quasi il 70% delle facce. Per loro l’unica buona notizia sarebbe che quella riforma allegrotta che taglia qualche centinaia di parlamentari a cavolo, così, tanto per fare gli splendidi, non potrebbe entrare in vigore così presto. Insomma si andrebbe al voto solo per fare un piacere a Salvini. E la legge di stabilità? Il confronto con l’Europa del 27 settembre? Il pericolo – concreto – di un esercizio provvisorio? Lo spread? Silenzio. Vedremo nelle prossime ore. Vedremo, oltretutto, se Conte si eviterà l’onta di un voto di sfiducia andando dal Capo dello Stato a rimettere il suo mandato con dignità. In questo caso occorrerebbe un nuovo governo per gestire gli affari correnti e le elezioni (che, detto tra parentesi, prima di novembre appaiono difficili). E sarebbe anche giusto: non è un po’ cacofonico che a governare le procedure elettorali sia il ministro Salvini che ha prodotto il precipizio?

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