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Pronta la legge Usa su Hong Kong. Cina furiosa

Il Hong Kong Human Rights and Democracy Act, una provvedimento legislativo statunitense per difendere i diritti democratici di Hong Kong, diventerà legge nelle prossime settimane grazie al sostegno bipartisan concluso ieri, dopo il passaggio nelle due Commissioni per le Relazioni estere di Camera e Senato. Nota: i due rami del Congresso sono a diverso controllo, la Camera è democratica e il Senato repubblicano, ma su certe questioni c’è assoluta uniformità di vedute. Soprattutto perché garantire i diritti umani e le libertà democratiche di Hong Kong è un argomento che mette pressione alle autorità dell’ex colonia britannica, ossia sollecita Pechino, che infatti ha già risposto definendo la legge “un’interferenza”.

Due Repubblicani, Chris Smith per la Camera e Marco Rubio per il Senato, hanno promosso l’Hong Kong Act nelle rispettive commissioni ottenendo voto unanime. Quando il provvedimento è stato introdotto, a giugno, gli sponsor (ossia i congressisti che lo propongono) erano sette alla Camera e sei al Senato, ora sono diventati 37 e 22: poi ci sono i favorevoli, tantissimi. Forse già a metà ottobre, dopo il Columbus Day, la legislazione entrerà alla Camera. L’obiettivo è emendare l’US-Hong Kong Policy Act del 1992, quello che ha mantenuto intatti gli affari degli Stati Uniti e altri legami con la città dopo il passaggio del 1997 dalla Gran Bretagna alla Cina.

Se approvato, tra le varie l’atto cose permetterebbe agli Stati Uniti di sanzionare i funzionari cinesi ritenuti responsabili di “minare le libertà di base a Hong Kong”. Argomento piuttosto delicato con le proteste in piazza che stanno sempre più spesso sfociando in violenze e con Pechino che vorrebbe ricomporre il quadro di stabilità, alterato da ormai tre mesi, prima di iniziare i festeggiamenti in pompa per il 70esimo anniversario della Repubblica popolare.

Smith, parlando ai giornalisti, ha spiegato che c’erano già stati tentativi in passato per ristrutturare la legge sulle relazioni con Hong Kong, ma tutte le volte c’erano state opposizioni da parte di funzionari e tecnici, uomini del dipartimento di Stato e del settore del commercio, perché temevano che avrebbe potuto alterare il quadro delle relazioni con il Porto Profumato – ossia con quella parte di Cina che non è definitivamente assorbita dal Mainland e che mantiene relazioni semi-indipendenti, per ora, col resto del mondo, ma è comunque sotto il controllo amministrativo ultimo di Pechino.

“Ora però il quadro è diverso”, aggiunge il deputato del New Jersey. È chiaro: la situazione è molto diversa, le proteste scatenate dal tentativo di far passare una legge sull’estradizione (che avrebbe reso più fluido a Pechino agire legalmente sui residenti hongkonghesi) si sono trasformate in un grido disperato contro la cinesizzazione dell’hub finanziario. Ormai le manifestazioni sono pro-democrazia, e non più anti-estradizione: i cittadini di Hong Kong temono per il loro futuro, vedendo che già nel presente si sta erodendo sempre di più la distanza con la Cina (intesa come sistema di gestione statale) che la riconsegna del 1997 avrebbe dovuto garantire fino al 2047 sotto lo schema “una paese, due sistemi”.

Risposta dura da Pechino. La legge “è una scusa”, dice il portavoce del ministero degli Esteri, sempre più spesso megafono dell’intero governo e del Partito su certe questioni: “Sollecitiamo la parte americana […] a rispettare la sovranità cinese, a smettere di interferire negli affari interni della Cina e smettere di fare dichiarazioni irresponsabili”, ha commentato. La Cina da diverse settimane sta cercando di descrivere le proteste di Hong Kong come una macchinazione ordita dagli Stati Uniti. È una costruzione narrativa utile per proteggere i propri cittadini da quello che sta succedendo: spingere sul nazionalismo permette anche di descrivere coloro che scendono in strada come persone mosse da uno stato nemico, spesso indicati dalle autorità cinesi come “terroristi” o “rivoltosi”.

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