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Il ponte delle spie. Lo scambio di prigionieri fra Russia e Ucraina fa ben sperare

Quando stamattina diversi prigionieri catturati dai russi sono rientrati all’aeroporto di Kiev, il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, li ha accolti con un breve discorso di cui il passaggio più importante è stato: stiamo lavorando per “mettere fine a questa terribile guerra” — quella avviata dalla Russia nel 2014, quando ha annesso illegittimamente la penisola della Crimea e poi ha aperto un fronte nella regione del Donbas col tentativo di strozzare ancora di più Kiev, trovando però la risposta militare e creando i presupposti per la dura reazione internazionale, l’isolamento legato alle sanzioni, le complicazioni nei rapporti con l’Occidente.

Lo scambio di prigionieri — comprendente quello dei 24 marinai ucraini catturati nel Mar d’Azov a novembre scorso su cui una corte internazionale s’era già pronunciata a favore mesi fa — è effettivamente letto come un passaggio distensivo, e salutato come tale anche dagli attori internazionali più coinvolto nel dossier. A cominciare da Donald Trump. “Russia e Ucraina hanno appena scambiato un gran numero di prigionieri. Ottime notizie, forse un primo passo da gigante per la pace. Congratulazioni ad entrambi i paesi!”, ha scritto su Twitter l’americano che sta cercando di arrivare alle elezioni del 2020 con in mano il processo di pace come grande successo, eredità internazionale.

Sebbene il presidente americano sia accusato in questo momento di usare la questione ucraina per ragioni politiche personali: le critiche riguardano il rallentamento del processo d’avvio dei 250 milioni di dollari di aiuti militari che Washington ha approvato per Kiev. La Casa Bianca dice che è ancora in corso la fase di scrutinio, ma dipartimento di Stato e Pentagono dicono che in realtà è concluso, e la presidenza è finita sotto pressione politica bipartisan — al Congresso chiedono di eliminare le zavorre per aiutare con più decisione l’Ucraina nel confrontarsi con la Russia. È logico pensare che l’arrivo di armamenti americani potrebbe alzare i toni, in questa fase delicata, e dunque il rallentamento imposto da Trump potrebbe avere una ragione più pragmatica rispetto all’approccio più classico (e rigido) di altri apparati.

Secondo alcune ricostruzioni Trump avrebbe rallentato proprio per creare un terreno più collaborativo con Vladimir Putin, sia nel quadro ucraino che in quello più generale (non perdere il contatto con Mosca). L’Editorial Board del Washington Post è più velenoso: Trump starebbe usando gli aiuti per ricattare Zelensky — col quale sta facendo saltare l’organizzazione di un incontro faccia a faccia — perché vorrebbe che Kiev aprisse un processo su un caso molto discutibile che coinvolge il figlio del principale contender democratico Joe Biden.

La questione non è nuova: già lo scorso mese il New York Times aveva scritto di un incontro a Madrid tra Rudolph Giuliani, l’avvocato di Trump, e uno stretto collaboratore di Zelensky in cui l’americano aveva pressato affinché Kiev riaprisse un’indagine potenzialmente imbarazzante contro Hunter Biden, ex membro del consiglio di amministrazione di una società ucraina del gas, col padre vicepresidente che avrebbe esortato il licenziamento del principale procuratore ucraino che ha indagato sulla società. Poi avrebbe richiesto anche un’altra indagine sulla vicenda che ha coinvolto Paul Manafort, ex capo della campagna Trump, condannato per non aver dichiarato di essere a libro paga del partito dell’ex presidente Yanucovich: l’avvocato del presidente Usa vorrebbe che Kiev arrivasse a dire che s’era trattato di un complotto per intralciare la corsa presidenziale di Trump tre anni fa. “In altre parole — scrive il WaPo — gli uomini di Trump vogliono che il governo ucraino dimostri che l’Ucraina ha agito impropriamente contro il signor Trump nelle elezioni del 2016; ma vogliono anche che si intrometta a suo favore per il 2020”.

Lo scambio di prigionieri di oggi è tuttavia un pezzo importante del processo di dialogo che s’è ravvivato attorno alla crisi ucraina. Dietro c’è un’attività di contatto diplomatico condotta dagli Stati Uniti, ma anche dagli europei, soprattutto Germania e Francia, membri con Ucraina e Russia del gruppo di contatto del Formato Normandia. “Il conflitto in Ucraina sarà al centro dell’agenda del Consiglio di cooperazione franco-russo sulle questioni di sicurezza” ha commentato il ministro degli Esteri francese, Jean Yves Le Drian, vettore diplomatico dello sforzo macroniano di riqualificazione russa (che non può prescindere dalla stabilizzazione in Ucraina).

D’altronde, era stato lo stesso vicepresidente Usa, Mike Pence, dalla Polonia (dov’era in sostituzione di Trump, rimasto a gestire gli effetti dell’uragano Dorian negli States), a dire che per lungo tempo gli Usa hanno “portato il peso” della diplomazia attorno alla crisi, e dunque “crediamo sia giunto il momento per i nostri partner europei di fare un passo avanti”; e gli Stati Uniti hanno ancora “grandi preoccupazioni” per la corruzione in Ucraina (messaggio quest’ultimo da ricollegare al caso Biden).

Tra i liberati dai russi ci sono Roman Sushchenko e Oleg Sentsov, il primo un giornalista, l’altro un documentarista condannati da Mosca per fantomatiche attività di spionaggio solo perché avevano, negli anni più infuocati del conflitto, trasmesso le immagini di quello che stava succedendo in Ucraina, del sostegno che la Russia forniva ai ribelli dell’est. Pare invece che gli ucraini abbiano rilasciato tra gli altri Volodymyr Tsemakh (le autorità russe hanno diffuso un’immagine pixellata del gruppo liberato, perché molti di loro potrebbero essere uomini dell’intelligence). Tsemakh è considerato “persona informata sui fatti” dagli inquirenti olandesi che hanno accusato la Russia per le responsabilità dell’abbattimento del volo della Malaysia Airlines MH17, colpito (probabilmente per errore) da un missile terra-aria Buk lanciato dai separatisti e fornitogli dai russi.

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