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Siria. Cosa aspettarsi dalla ricostruzione. L’analisi di Dacrema (Ispi)

Il segretario generale della Nazioni Unite, Antonio Guterres, ha annunciato uno step diplomatico interessante riguardo alla Siria, a cui si è arrivati formalmente durante le riunioni dell’Unga (United nations general assembly) di questi giorni, ma che è in discussione da tempo. Il governo siriano, ossia il regime assadista, ha accettato di lanciare un Comitato costituzionale che sarà “facilitato” dalla diplomazia attorno alla guerra che si muove a Ginevra. “Vedremo i risultati, per il momento val la pena ricordare che nella definizione usata dal regime questa stessa istituzione, di cui si discute da tempo, suona come Comitato per discutere della costituzione del 2012, e quel per discutere ha un valore fondamentale”, ci dice Eugenio Dacrema, ricercatore Ispi tra i più esperti italiani sulla Siria. 

Perché? “Se è quello di cui si parla da un po’ è qualcosa fatto per accontentare i russi, per giustificare la presenza dell’Onu a Damasco e per qualificare il lavoro eterno e non troppo funzionale del delegato onusiano. Il punto è che non esiste alcuna delegazione di una opposizione in qualche modo rappresentativa all’interno di questo comitato. In sostanza non cambia praticamente nulla di concreto”. 

Dacrema, insieme ad altri colleghi dell’Istituto per gli studi di politiche internazionali, è autore del report pubblicato recentemente “Rebuilding Syria: the Middle East next power game?“, in cui si analizza la fase che interesserà il Paese nel futuro prossimo: la ricostruzione. Il direttore dell’istituto, Paolo Magri, nell’introduzione dello studio scrive: “La domanda chiave sulla Siria non è come la ricostruzione possa riportare il paese al 2010”, ossia l’anno prima della rivoluzione sfociata in guerra civile, “piuttosto sarebbe saggio indagare su come il processo di ricostruzione possa evitare di diventare una continuazione della guerra civile con altri mezzi e invece diventare uno strumento per forgiare una società nuova, inclusiva e prospera per tutti i siriani”.

“La ricostruzione sarà un momento importante, ma dobbiamo partire da un paio di condizioni che ormai possiamo dare per assunto: la prima è che non ci sarà la quantità di soldi che ci si aspettava”, commenta Dacrema. Per la Siria era previsto un giro miliardario, centinaia di miliardi. Ma ora è già tanto se si arriverà a una decina nel prossimo biennio. E lo stesso rais, Bashar el Assad, sembra aver tacitamente accettato la situazione. 

“Il regime non è interessato ai soldi europei, diciamo occidentali, e difficilmente ne arriveranno da altre parti. Prendiamo la Cina per esempio: si era parlato di un interessamento di Pechino nella ricostruzione siriana, ma sostanzialmente dobbiamo considerare che per i cinesi gli investimenti in Paesi terzi devono seguire due regole auree: la prima è che deve esserci stabilità che garantisca un ritorno economico chiaro e sicuro, e Assad non è un leader così stabile; la seconda è che quando la Cina ti dà soldi pretende che le sue imprese operino direttamente per creare guadagni, ma il mercato siriano è abbastanza ingolfato da Russia e Iran, che sono entrambe lì per fare dei soldi e non certo per metterceli visto che non hanno grosse possibilità di investire”. 

E dagli Stati limitrofi? “C’era stato un avvicinamento degli Emirati Arabi, e anche dei sauditi. Finanziare un’iniziativa in Siria era vista come una leva da usare su Damasco per chiedere in cambio un alleggerimento della presenza iraniana, ma alla fine entrambi si sono più o meno sganciati sia a causa del No americano, sia perché ormai non hanno così tante risorse da mettere a disposizione”.

Un’altra grande questione legata alla ricostruzione riguarda i profughi: la fuga dei siriani dalla guerra ha creato potentissime ondate migratorie che hanno pesantemente interessato anche l’Europa, oltre che Paesi confinanti come Libano, Turchia e Giordania, creando falle di stabilità. Torneranno i rifugiati? “No, non credo, non in massa. La questione è concatenata con quanto abbiamo detto sopra, ma non solo. I siriani fondamentalmente non avrebbero bisogno di una ricostruzione enorme per tornare, ma il problema per il rientro è un altro. Ci sono condizioni pesanti, il regime contro cui è stata innescata la rivolta, è rimasto in piedi, e non ha cambiato pratiche”. 

Qualche esempio? “Ci sono questioni concrete come la leva militare: molti giovani sotto i 40 anni temono che rientrando in Siria finiranno subito per andare a fare la naja privando le proprie famiglie degli unici breadwinner. Di casi così se ne sentono tantissimi. Non solo, c’è la memoria storica: quello che è successo con la rivolta negli anni Ottanta, quando migliaia di persone sparirono nei dieci anni successivi, è ancora ben presente nella mente di tanti. Inoltre molti che sono fuggiti vengono da aree dove la ribellione è stata forte e, anche se non si sono uniti alla rivolta, si sono rifiutati di combattere con i lealisti. Ma spesso sanno che è la loro semplice provenienza che potrebbe farli risultare sospetti al regime. Un presupposto centrale è quindi la mancanza di garanzie per la sicurezza: in tanti temono che rientrando potrebbero essere arrestati per le più disparate ragioni o costretti al reclutamento dal regime”.

Un altro elemento interessante sulla fase di ricostruzione riguarda il rapporto tra Russia e Iran: cosa succederà? “Partiamo da un punto, Russia e Iran, che sono i due principali alleati del regime, non hanno relazioni stupende, però non saranno i soldi della ricostruzione siriana a farli dividere”. Perché? “Perché per economie strutturate e relativamente grandi come quelle di Mosca e Teheran si tratta di flussi minori. Certo, ci sono state guerricciole come quella per la gestione delle miniere di potassio, che prima erano state affidate agli iraniani, ma poi Mosca ha pressato il regime per ottenerle”. Il motivo pare essere collegato alla conformità richiesta dall’Ue per l’importazione di potassio e derivati: quello russo non è conforme, mentre il siriano sì, così i russi lo estraggono in Siria, lo riportano in patria e poi gli cambiano targa per poterlo esportare in Europa.

“Ma anche qui – continua Dacrema – quando sentiamo parlare di spartizione delle riserve sulla Siria dobbiamo considerare i numeri al di là della narrazione. Parliamo di poca roba, qualche centinaio di milioni di dollari, praticamente niente. Invece quello che potrebbe far litigare realmente Russia e Iran è la dimensione politica del futuro siriano. Teheran vorrebbe un regime debole piegato alle linee strategiche iraniane similmente a quanto accade nel rapporto fra Stato libanese ed Hezbollah; vorrebbe che il governo siriano avallasse ai Pasdaran la possibilità di agire liberamente contro Israele dalla Siria. Ma Mosca e Assad hanno perfettamente chiaro che non possono permettersi di trasformare il Paese in una piattaforma militare contro lo Stato ebraico”.

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