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Accordi di Parigi. Così Trump vuole mettere alle strette la Cina (e l’Europa)

C’è molto più di una semplice promessa elettorale dietro il recesso dall’accordo di Parigi sul clima notificato oggi all’Onu dall’amministrazione statunitense. Non è certo un mistero che i calcoli elettorali abbiano avuto la loro parte due anni fa quando, fra lo sgomento generale, il presidente americano Donald Trump ha annunciato che gli Stati Uniti se ne sarebbero tirati fuori. Come confermato in una nota dal segretario di Stato americano Mike Pompeo, il ritiro entrerà in vigore fra un anno. Ovvero all’indomani delle elezioni presidenziali del 2020. Se Trump dovesse essere rieletto, dunque, potrebbe portare in dote alle sue constituencies nel mondo industriale e agricolo, le più danneggiate dalle severe clausole dell’accordo, un dono a lungo atteso.

Ma a monte della rottura che si sta consumando sul clima c’è anche una precisa strategia geopolitica. Fin dall’inizio il governo statunitense ha motivato la scelta accusando la Cina, assieme ad altri Paesi asiatici come l’India, di voler scaricare sui lavoratori americani il costo dell’inquinamento cui contribuisce più di qualsiasi altro Paese.

I numeri in parte gli danno ragione. L’impegno di raggiungere il picco di emissioni di CO2 nel 2030 che il governo cinese ha liberamente assunto in sede di negoziati è considerato dagli addetti ai lavori una blanda tabella di marcia. È noto che, così come il Wto (World trade organization), anche l’Onu considera tutt’oggi la Cina come un “Paese in via di sviluppo”, categoria per cui prevede regole meno stringenti sulla riduzione delle emissioni. Uno status speciale che l’amministrazione americana ha da tempo messo in dubbio, chiedendo che l’ex Celeste impero venga classificato come “economia appena sviluppata” e sia sottoposto alle stesse obbligazioni dei Paesi sviluppati.

Negli ultimi due anni la battaglia sul clima ha assunto un ruolo chiave nel più ampio confronto commerciale, militare e cyber fra Washington e Pechino. Il Dipartimento di Stato di Pompeo ha a più riprese puntato il dito contro la falsificazione dei dati ufficiali da parte del governo cinese. E lo stesso Trump non ha risparmiato continue stoccate alla Città Proibita. Lo scorso giugno, a commento dei dati dell’Oms (Organizzazione mondiale per la sanità), ha detto che “Cina, India, Russia, molte altre nazioni non hanno una buona aria, né una buona acqua per il suo inquinamento, e non si prendono alcuna responsabilità”.

Abbandonando l’accordo sul Clima, Trump non ha semplicemente voluto sollevare il mondo industriale americano dei costi che le clausole comportano. Ha anche, dichiaratamente, messo a nudo le responsabilità cinesi nel riscaldamento globale lasciando gli alleati europei a fare i conti con il più grande produttore al mondo di diossina di carbonio.

Benché la diplomazia cinese e la propaganda del Partito comunista abbiano fatto della causa ambientale una bandiera della nuova Cina globale e globalizzata, nei fatti il governo centrale ha ancora molto da dimostrare.

La stretta sulle emissioni delle imprese c’è stata, a suon di sanzioni e commissariamenti per chi non si adegua alle nuove direttive. Quanto all’uso del carbone le statistiche raccontano una storia diversa. Secondo le stime della Global Coal Exit List, un database gestito da più di trenta organizzazioni ambientali coordinate dalla tedesca Urgewald, solo nell’ultimo anno i nuovi impianti energetici alimentati a carbone costruiti in Cina hanno portato il consumo del Paese a 226.2 Gigawatts (Gw), due volte quello indiano e circa il 40% del consumo globale.

Al conto salatissimo si aggiunge quello della Belt and Road Initiative (Bri), il mastodontico piano infrastrutturale intercontinentale divenuto un simbolo della presidenza di Xi Jinping. Un quarto dei progetti energetici della nuova “Via della Seta”, spiega un recente studio del Centro per la finanza e lo sviluppo di Tsinghua, è alimentato a carbone. L’Europa oggi unanime nella condanna della scelta americana è parte attiva del piano cinese di cui costituisce il terminale cruciale e cui ha già prestato e venduto porti, autostrade, collegamenti terrestri e marittimi.

Una contraddizione che non sfugge certo all’amministrazione Usa, intenta da anni ad ammonire gli alleati dei rischi che la Bri comporta. Una volta che gli Stati Uniti saranno fuori, la Cina otterrà il primato di primo Paese inquinante nelle emissioni di C02 e di gas serra fra quelli aderenti al patto. Allora i Paesi europei paladini delle battaglie ambientaliste saranno chiamati a scegliere: vigilare e condannare eventuali abusi o infrazioni dei limiti concordati a Parigi da parte cinese o passarci sopra per dare la precedenza agli investimenti e agli affari a buon mercato.

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