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Il Dio di una non credente perseguitata dai demoni della Siria

“Diciamo cose del tipo: Che Dio sia con te, ecc… Semplici modi di dire. L’ispirazione divina utilizzata in espressioni umane nella nostra vita… Il trono di Dio… Cercano di farci avvicinare all’amore attraverso lo spirito, nel profondo della nostra vita interiore… Si tratta dell’amore divino, della ricerca di Dio, del vagabondare fino a incontrarlo. L’anima umana si lancia verso Dio per vivere in Lui e con Lui… Solo Lui la sazia. Uscirne fuori significa allontanarsi dal nostro Signore. Salomone paragona il suo amore per Dio con quello che sente l’amata per l’amato”.

Chi ha scritto queste parole, questo amore lo percepirebbe anche nella sua nuova casa, che ancora non conosce. È un appartamento di Berlino dove ci sono sette sue fotografie. Lei sarà sui cinquanta, ha i capelli corti e un sorriso penetrante. Nella stanza-studio, sullo schermo del computer, quando viene acceso si vede lei insieme a suo marito. Lui è l’unico inquilino, ha disposto quelle fotografie in quel modo, sul comodino e in salotto, in cucina e sullo schermo davanti al quale passa gran parte del suo tempo, perché sa che in questo modo lui e lei staranno insieme dal risveglio al momento di addormentarsi.

“Vivo in lei, so che è viva poiché sono vivo io. Ciò che rimane o non rimane in vita dipende da quelli che sono ancora vivi”. Forse lei è morta? Questo il marito non può dirlo con certezza, da sei anni. Da quando è stata sequestrata e non ha più avuto notizie certe di lei. Forse il tempo per lui si è fermato sei anni fa, quando un amico gli ha comunicato prima che la persona con cui sua moglie lavorava era stata sequestrata, poi, in un secondo momento, che anche sua moglie era stata catturata da quel gruppo miliziano armato? No. Da allora lui ha lasciato la città dove si trovava, è fuggito in un Paese vicino, poi è riuscito a venire qui in Europa, a Berlino. Ma il tempo ha seguitato a scorrere soprattutto perché lui ha seguitato a cercarla, capendo i suoi insuccessi molto dolorosi, che gli hanno disvelato la vera natura di tanti interlocutori, di tanti “amici”. Così, convinto che la vita dipenda da cosa fanno i vivi, ha deciso di scriverle, con costanza, lunghe lettere di aggiornamento sullo stato delle sue ricerche della verità che la riguarda e della situazione del loro Paese. Ovviamente le ha scritto degli amici che sono spariti dietro un generico “noi non possiamo fare alcunché”, ma anche di altri, molti altri: amici che non conoscono né lui né sua moglie, ma lo chiamano, gli scrivono, gli chiedono di non desistere, gli augurano ogni bene per lui, per lei, e quindi anche per loro. Il tempo però gli ha portato anche una sorpresa inattesa. Un abbozzo di diario che lei teneva nel luogo di strazi indicibili dove era voluta andare per documentare, testimoniare quanto veniva fatto contro l’uomo a due passi dalla città dove vivevano tra mille difficoltà. Lì c’erano massacri, sequestri, assedi, assedi dentro gli assedi, decessi per fame. Lei, attivista per i diritti umani, doveva essere lì, vedere, testimoniare. E in qualche momento libero annotava su fogli sparsi, non numerati, qualche pensiero, a volte appena qualche appunto. Venendo da un luogo isolato, rimosso dal sistema di comunicazione, sono appunti preziosi, perché senza un passato una storia non può avere futuro, e quelle pagine vogliono recuperare alla storia del suo popolo realtà rimosse dalla storia del mondo.

È ora di dare un nome ai protagonisti. Lui si chiama Yassin, Yassin al Haj Saleh. Siriano, è stato internato come dissidente politico per anni interminabili dal regime di Assad. Era un dirigente comunista prima dell’arresto, e uscendone disse che “la detenzione mi ha liberato della prigione interiore delle ideologie rigide”. Lei si chiama Samira, Samira al-Khalil. Anche lei era una comunista, non credente come il marito, ma da quanto ha scritto sembra che Dio abbia un ruolo importante nei suoi pensieri. Anche lei aveva trascorso anni in prigione, quattro per la precisione. Poi, scarcerata, ha conosciuto Yassin, e si sono sposati. Quando hanno deciso di andare insieme nei territori limitrofi a Damasco dove infuriava la battaglia e che presto sarebbero stati posti sotto assedio da Assad, lei sentiva il dovere di esserci per raccontare insieme agli amici della sua organizzazione per i diritti umani. Pensava soprattutto alla ferocia della repressione del regime siriano; la conosceva bene quella ferocia, e ha seguitato a conoscerla, ma presto è stata sequestrata dai jihadisti della Brigata dell’Islam. Lui scrivendole l’ha voluta mettere a parte delle sue denunce costanti nei loro confronti e le ha scritto: “Sai Samira, loro si sono promossi ad ‘esercito dell’Islam’, prima erano solo la brigata”. Entrambi lontani dalla fede praticata, nascono in un contesto islamico senza riconoscerlo come il loro, ma lui ha profondo rispetto per ogni fede e i terroristi che hanno sequestrato sua moglie li chiama sempre terroristi nichilisti.

Da quando sul suo tavolo di profugo sono arrivati quei fogli, ha cominciato a ricomporli, a decifrare la sua scrittura minuta, frettolosa, a individuare gli errori, a cercare le parole mancanti per completare le frasi come le avrebbe volute scrivere. Ora quei fogli sono un libro, “Diario di Samira al-Khalil. Parole dall’assedio” , pubblicato in questi giorni nella versione italiana. Un diario che comincia così: “Lasciai la mia patria nel momento in cui lasciai la mia casa… La gente è la patria… La patria senza la sua gente non esiste”. Il suo passato di prigioniera la induce a paragonare quel passato con l’esperienza della vita in una zona sotto assedio militare: “In genere chi veniva torturato di meno si sentiva colpevole. Una giovane detenuta pensò addirittura al suicidio per questo motivo: la stavano torturando meno delle altre. Oggi la devastazione è arrivata in alcuni luoghi: molta distruzione, poca distruzione, malignità per le disgrazie altrui, crudeltà, brutalità. L’elettricità, la luce e le medicine non arrivano da mesi, mentre bombe e missili continuano a cadere ogni giorno…”. Girando tra questa umanità desolata, abbandonata, Samira trova una verità che le appare di enorme valore, che ancora una volta riporta a Dio, alla religione. Lei scrive infatti che l’elemento più importante sono “le storie spontanee della gente, i loro sentimenti espressi nel comodo più semplice… Solo in seguito l’intellettuale e il filosofo le elaborano e le danno la veste giusta… Tuttavia il loro valore nasce dalla spontaneità delle loro lacrime che accompagnano il loro racconto. La religione popolare è una specie di sistema interno di valori, leggende, opinioni, lavoro, credenze e modi di vedere le cose […] “il sentimento condiviso” verso le cose e i fatti…”.

Nel foglio seguente si cambia tono, soggetto, e si mira a restituire al mondo la storia semplice di tanti rimossi: “Non è male. Una giacca leggera non riscalda, ma si asciuga velocemente. Una giacca pesante scalda bene, ma ha bisogno di tempo per asciugarsi… Per riscaldarci dobbiamo aspettare che si asciughi la giacca… Vestiamo i demoni della terra…”. Il pensiero di Dio sembra proprio tornare davanti ai profughi in fuga: “Quando gli Stati chiudono le loro frontiere in faccia a chi scappa con i propri figli da una morte sicura, ma le aprono per permettere che le attraversino i demoni della terra…”.

Ma Samira sa spezzare il cuore del lettore scrivendo davanti ai corpi delle vittime del massacro chimico “smettete di gridare, fateli continuare a dormire tranquilli.” In effetti davanti all’indifferenza del mondo questo silenzio disperato e rispettoso sembra il solo capace di custodire il loro passato nel nostro presente. E far seguitare quei morti a vivere, in noi.

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