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Vi racconto la stagnazione secolare (e i suoi amici). L’analisi di Pennisi

Il Pd è a conclave nell’Abbazia francescana di San Pastore a Contignano. Tra breve si terranno gli Stati Generali del M5S. I temi sono marcatamente politici: se e come strutturare un’alleanza permanente tra i due partiti/movimenti che duri per tutta questa legislatura e sia competitiva, alle prossime elezioni politiche, con un centrodestra a cui i sondaggio oggi attribuiscono il 50% del voto popolare, se non di più. Nel background della eventuale alleanza, tuttavia, non mancano i temi economici. Sia quelli specifici su questo o quel punto sia quello più generale della mancata crescita, che si è accentuata da quando il Pd e il M5S sono al governo, o in compagnia di altri o in coalizione tra loro.

I dati Eurostat ed Ocse (più volte citati in questa testata) sono eloquenti: nell’unione monetaria – area comunque caratterizzata a bassa crescita da circa 15 anni – l’Italia è il fanalino di coda. Le statistiche più recenti mostrano un’industria in affanno, servizi in difficoltà ed un mercato del lavoro in cui aumenta il numero di coloro che sono occupati per almeno un’ora la settimana ma è in forte calo il totale delle ore complessivamente lavorate.

A Contignano ha aleggiato il tema della “stagnazione secolare” lanciato da Larry Summers dell’Università di Harvard nel 2013 per descrivere il malessere economico che si percepisce da alcuni anni. Sotto il profilo quantitativo – vale la pena ricordarlo – Summers analizzava l’economia americana che negli ultimi sei anni – mentre l’Italia ristagnava – ha riportato un tasso medio di crescita del 2,5% circa ed ha portato il tasso di disoccupazione al 3% delle forze di lavoro (quello italiano è il 9,7%). Summers analizzava, però, la graduale riduzione del tasso di rendimento degli investimenti (privati e pubblici) dagli Anni Settanta del secolo scorso: ciò faceva presagire un rallentamento di lungo periodo e forniva una spiegazione ai bassi tassi d’interesse.

Alla recente conferenza annuale dell’American Economic Association a San Diego in California, Paul Schemelzing della Università di Yale ha presentato un lavoro in cui si tracciano i tassi d’interesse reali nell’80% dei Paesi oggi avanzati ed ad economia di mercato dal quattordicesimo secolo: i tassi, secondo la sua analisi, sarebbero diminuiti dello 0,006-0,016% dal Medio Evo. A conclusioni analoghe, giunge un lavoro del servizio studi della Bank of England in cui si conia il termine “supersecular stagnation”.

Ci dovremmo, quindi, contentare di una stagnazione supersecolare che non può non portare che alla “decrescita felice”, un tempo bandiera identitaria del M5S? Non credo che la “stagnazione secolare o supersecolare” e la “decrescita felice” forniscano spiegazioni tali da conquistare elettori. Ci sono stati, certamente, secoli in cui non c’era crescita perché il progresso tecnico era fermo e la produzione era essenzialmente frutto di agricoltura “itinerante” (in cui gli agricoltori si spostavano dalla cultura di un piccolo campo a quella di un altro man mano che la fertilità del suolo diminuiva). Ma da quando il progresso tecnico ha mutato le strutture di produzione, il mondo è caratterizzato da crescita più o meno forte a seconda delle varie aree e delle politiche economiche in esse esercitate. In questi ultimi decenni, la rivoluzione digitale ha posto le basi per una rapida crescita. Per chi vuole coglierne le opportunità e le sfide.

Nell’Unione europea, ad esempio, nel 1992 il mercato unico è stato proclamato ma l’attenzione è stata spostata alla nascente unione monetaria. Il mercato unico è rimasto zoppo: è stato in buona misura integrato il mercato delle merci, ma non quello dei servizi (per la resistenza degli ordini professionali e non solo), i mercati dei capitali europei sono rimasti frammentati (la stessa unione bancaria è monca), di convergenza dei sistemi previdenziali non si parla più dal 2003, la stessa modesta proposta di un’assicurazione europea contro la disoccupazione sembra una chimera. In alcuni campi, si è addirittura fatto marcia indietro. Tra i tanti casi, quelli di Francia ed Italia, due Paesi in cui la stagnazione e l’aumento dei divari sociali mordono in modo particolarmente forte. In Francia, tutto il settore degli audiovisivi (che in un mondo digitale dovrebbe essere dinamico) è protetto da una legislazione su televisioni, cinema ed anche librerie volta a bloccare produttori e distributori del resto d’Europa e, quindi, ad inibire l’innovazione. In Italia, vige la fiera delle piccole lobby: nelle ultime due leggi di bilancio, ad esempio, sono state approvate, in spregio alle norme europee sul mercato unico, un’estensione per tre lustri delle concessioni balneari e regole a tutele di servizi di taxi tra i più inefficienti, e più costosi, al mondo. Inoltre, abbiamo portato gli investimenti pubblici al lumicino e stiamo facendo allontanare quelli privati.

Gli “amici della stagnazione secolare o supersecolare” dovrebbero riflettere perché –ritengo – i cittadini-elettori lo stanno già facendo.

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