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Osservatori in Libia? Dipende da numeri e regole. Intervista all’ammiraglio Di Paola

“Una missione di Osservatori in Libia è meglio di niente se non è possibile avviarne una più consistente com’è per esempio l’Unifil in Libano e comunque la valutazione delle parti in causa è indispensabile. Naturalmente poi dipende da chi la organizza e dal numero degli osservatori”. L’ammiraglio Giampaolo Di Paola, già ministro della Difesa dopo essere stato presidente del Comitato militare della Nato e capo di Stato maggiore della Difesa, è realista nel commentare gli sviluppi della crisi libica e considera il possibile rilancio della missione Sophia soprattutto come una presenza politica dell’Unione europea.

Ammiraglio Di Paola, sembra che una missione in Libia possa essere solo di osservatori perché le parti in causa non vogliono militari. Che utilità possono avere e che regole d’ingaggio sarebbero necessarie?

Qualunque missione è sottoposta alle valutazione delle due parti in causa, quindi di Fayez al-Sarraj e di Khalifa Haftar, valutazione indispensabile per avere il via libera dalle Nazioni Unite o dell’Unione europea. Una missione più sostanziale, per capirci come l’Unifil in Libano, darebbe maggiori garanzie: se questo non è possibile, quella degli Osservatori è meglio di niente perché, oltre a osservare e riferire, avrebbe comunque una funzione deterrente.

Su quali numeri si può ragionare?

C’è grande differenza tra poche unità e un gruppo di una certa consistenza. Pur non essendo forze combattenti, devono avere la capacità di autodifesa. Al di là del nome, dipende da che cosa sarà ritenuto accettabile dalle parti in causa.

Il paragone sarà probabilmente improprio, ma gli osservatori dell’Osce alla vigilia della guerra in Kosovo, protetti da un contingente militare, non ebbero grande fortuna.

Intanto dipende da quale organizzazione internazionale esprime gli Osservatori: per esempio l’Unione europea ha una rilevanza politico-militare che l’Osce non aveva, essendo un’organizzazione inesistente dal punto di vista militare. Per semplificare al massimo: un conto sarebbe una missione con cinque osservatori, un altro con 200 o 300 e, se chi li esprime ha un peso politico, è più difficile per le controparti non tenerne conto.

Per ora non si parla della parte meridionale della Libia e delle tribù che la controllano. È sbagliato pensare che ci sia una sottovalutazione della complessità della realtà tribale libica?

Credo che a livello diplomatico non ci sia una sottovalutazione. A livello politico è chiaro che il focus in questo momento è il confronto tra al Sarraj e Haftar e ci si concentra su di loro: successivamente si potrà valutare anche la complessità della zona meridionale che è di particolare interesse per i flussi migratori. Bisogna rendersi conto di che cosa è fattibile in un certo momento più che della sottovalutazione o meno di un problema.

Si sta riparlando della missione EunavforMed-Sophia. A di là di un accordo sulle regole d’ingaggio sui porti di sbarco, secondo lei sarebbe importante più come deterrenza e di presenza politica dell’Unione europea o come effetto pratico contro i traffici illeciti?

L’aspetto principale è quello della presenza politica dell’Unione europea. Le missioni navali sono meno problematiche e più accettate dal punto di vista politico, per questo spesso rappresentano la prima risposta. Poi, se come dice l’Alto rappresentante Josep Borrell, lo scopo principale sarà far rispettare l’embargo delle armi, Sophia è utile, ma è tutto da vedere quante armi passano via mare piuttosto che per terra o per via aerea. Bisognerà capire come sarà concepita: potrà fermare le navi o sarà possibile solo un’ispezione consensuale? Da questo dipende la maggiore o minore efficacia.

Si dimostra comunque che l’Ue sta prendendo coscienza della necessità di un proprio ruolo nel Mediterraneo?

Mi sembra di sì. La conferenza di Berlino ne è un esempio come i successivi incontri diplomatici e la volontà di rilanciare Sophia: il Mediterraneo è un problema e vogliamo affrontarlo pur con i nostri limiti.

Ampliando il discorso all’instabilità mediorientale, dopo la crisi tra Stati Uniti e Iran e con tutti gli attori coinvolti nell’affare libico è credibile una progressiva riduzione della presenza americana in Medio Oriente se non, come ipotizza qualcuno, un ritiro in un futuro?

Nel medio termine direi che la presenza americana potrà essere riformulata, ma non credo proprio a un ritiro, anche perché il confronto con l’Iran rende obbligatoria la presenza americana.

Gli iracheni invece hanno insistito sulla permanenza degli addestratori italiani.

Dopo che il Parlamento iracheno aveva fatto la risoluzione sul fatto che gli Stati Uniti dovessero andare via, la dichiarazione a favore dell’Italia va letta anche nel senso che i nostri militari non sono esposti in quell’area come gli americani. L’impegno italiano è importante, ma non è certo di dimensioni tali da poter essere sostitutivo di quello americano: le due cose non sono alternative.

Oggi sembra impossibile ragionare su come si raggiungerà un equilibrio politico nell’area: la fase è troppo turbolenta.

Mi sembra proprio di sì, credo che nessuno sia in grado di fare previsioni.

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