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Cento anni fa il declino di una diva

Con Assunta Spina (1915), tratto dalla nota commedia di Nino Martoglio, diretta da un consumato autore di film, Gustavo Serena, Francesca Bertini veniva consacrata “Diva”. Il film fu il più visto e venduto all’estero, dopo Cabiria (1914) di Giovanni Pastrone (con didascalie di Gabriele D’Annunzio). La storia della popolana di Napoli, Assunta, combattuta tra amori e ricatti, con finale tragico, perfetto racconto nei tempi e nella recitazione, commuoveva anche i pubblici stranieri poco propensi ad accettare “il melodramma all’italiana”.

L’entusiasta accoglienza degli spettatori per la Bertini continua, in piena guerra, con Fedora (1916). Qui il fato e gli equivoci colpiscono nobili e borghesi, e l’explicit del film è consegnato al suicidio, per amore, della protagonista (Bertini), lasciata dal marito dopo avergli rivelato che per anni lo ha creduto un assassino. “La film (il genere oscillava), pur non essendo un capolavoro è inscenato con sfarzo e buon gusto”. La recitazione della Bertini non soddisfa qualche recensore, in quanto alterna “a dei momenti davvero indovinati nei quali esprime meravigliosamente le sensazioni dell’animo” altri in cui “si preoccupa della sua persona e … posa … in varie pose, piuttosto che interpretare”.

Eppure la sera della prima d Fedora al Quattro Fontane di Roma, in un palco c’è un’alta divina: Eleonora Duse. Dopo la scena finale, quella della morte di Fedora, quando dice “Ho freddo, ho tanto freddo, riscaldami Loris”, e il pubblico scatta in piedi in un lungo applauso e in ovazioni, anche la Duse applaude. Ritta, nel suo palco, accanto al regista De Antoni, appare visibilmente commossa. Vuole conoscere Francesca. La aspetta all’Hotel Eden. È l’incontro tra due immense attrici, teatro e cinema. La Duse, più grande della Bertini, è “umile e gentilissima” (ricorda la Bertini), fa accomodare Francesca accanto a lei, poi parlando, le prende le mani e le fa molti complimenti. Le dice che il film l’ha catturata. “Voi avete interpretato Fedora in un momento di grazia, e non capita spesso a noi attrici”. È nata un’amicizia, Non si vedranno più.

Il 1917 è per Francesca Bertini un anno con diversi fiaschi. Andreina (1917), tratto da Victorien Sardou, presenta scene troppo scollegate e si fa fatica a seguirlo (secondo la critica del tempo). In La piccola fonte (da un testo teatrale di Roberto Bracco), che segna per la Bertini l’inizio del sodalizio con quello che sarà il “suo” regista, Roberto Roberti, ha un certo successo al botteghino, ma la diva cade nelle sue pose un po’ stucchevoli. Malìa (1917), che voleva duplicare in Italia il successo de I prevaricatori di Cecil B. DeMille, ne risulta una brutta copia, con la sola differenza, nota con ironia un critico, che gli abiti della Bertini sono più sontuosi di quelli della Fanny Ward.

Nel 1918 giunge un successo inatteso che riporta Francesca Bertini al centro dell’attenzione della critica: Tosca (tratto dall’omonimo dramma di Victorien Sardou) che manda in visibilio il pubblico. “La Bernhardt aveva avuto la forza di trasformare un personaggio tanto romantico in una creatura dalla faccia umana. Sarebbe stato possibile un prodigio eguale nel cinematografo? Quale artista poteva realizzarlo? Una sola, certamente: Francesca Bertini. Ed essa ha vinto la prova. […] Usiamo una sola parola: Indimenticabile!” (Mario Consalvo, “La Tribuna”).

Tra la fine del 1918 e il 1919 la diva accetta di recitare in una produzione “seriale”, diremmo oggi, ossia in 7 film che mettono in scena i sette peccati capitali: L’orgoglio (1918), La gola (1918), L’ira (1918), L’avarizia (1918), L’invidia (1919), L’accidia (1919), La lussuria (1919). La serie è bocciata da critica e pubblico, tranne per La lussuria che, dato a Romam, nelle sale Quattro Fontane e Regina di Roma, resiste per ben diciannove giorni.

L’anno in cui Francesca Bertini raggiunge il suo apogeo artistico e, al contempo, inizia la sua discesa, è il 1920. Tra il marzo e il dicembre escono: La serpe; La principessa Giorgio; L’ombra, La sfinge, Marion, artista di caffè-concerto; Maddalena Ferat.

In La serpe, i soliti equivoci melodrammatici della vita, cui il pubblico di allora era avvinto, questa volta colpiscono il ceto medio. Il film chiude con la protagonista Nayda (Bertini), che sposa in carcere il fidanzato della sua defunta sorella, morta per dispiacere, credendo il suo ragazzo un assassino e, innocentemente, recluso. Il pubblico “affolla i cinema come non mai” ma la critica si divide. Entusiasta Pio Fasanelli, che chiosa come “il soggetto melodrammatico senza la sua arte magica, sarebbe probabilmente naufragato”. Angelo Piccioli, spesso severo con la Bertini, ribadisce che ella “bertineggia … recita con le ciglia corrugate, anche quando ci sono parti candidamente gioiose; ha sempre la fronte alta e lo sguardo altezzoso, storce la bocca a tutto spiano”.

La principessa Giorgio, tratto da un mediocre romanzo di Dumas figlio, tradimenti tra principi e principesse, duchi e duchesse, con i soliti equivoci arroventati dal talamo infedele, vede alla fine la morte dell’amante assassinato dal marito, ma la protagonista (Bertini) e suo marito sono innocenti. Il mediocre soggetto è salvato dalla buona regia e scenografia di Roberto Roberti e, soprattutto, grazie alla Bertini. Ella “dà una prova”, chiosa il critico Francesco Morabito, “all’altezza della sua fama; ritroviamo nella sua maschera possente e unica tutte le espressioni ammirate nelle innumerevoli produzioni, ma con maggior naturalezza”. Forse la diva comincia a “bertineggiare” di meno dopo le aspre critiche di Piccioli.

L’apogeo artistico, dopo Assunta Spina, arriva con Marion artista di caffé-concerto. È forse il più bel melodramma italiano al tempo del muto. Qui la Bertini torna nel ceto popolare, ma nobilitato dall’arte. Marion, figlia illegittima, senza padre, di una canzonettista, alla morte di questa, matura il suo talento di attrice, divenendo famosa. Ovviamente arriva l’amore, con un poeta. Poteva sognare di meglio?  Purtroppo, manco a dirlo, lui non può sposarla: deve portare all’altare la figlia del suo editore. Marion, accecata dal dolore, uccide la rivale. Ma ecco il ritorna del padre prodigo, si prende la colpa e va in prigione al posto di Marion. Ella torna a recitare. Impossibile, non ci riesce. Muore di tisi sul palcoscenico, con tanto di sbocco di sangue in primo piano. La sceneggiatura, tratta da un romanzo dei Annie Vivanti, è “un dramma tessuto mirabilmente coi fili del sentimento, che digrada lentamente nei sanguigni riflessi d’una passione tormentosa, e si frange di botto in una scena di morte e di ruina. […] Francesca Bertini e una Marion deliziosa e seducente. Di essa, della sua tempra di artista è inutile parlare” (Emilio Pastori). “Indiscutibilmente [Francesca Bertini] è riuscita una vera vincente, smagando fors’anche quelle personali risorse non in tutti i lavori da lei adoperate” (Zadig).

Un mezzo fiasco è Maddalena Ferat tratto dal romanzo Madeleine (1865) di Émile Zola, del quale la critica rimprovera lo svilimento del realismo zoliano in atmosfere da feuilleton, “un film men che mediocre” (Ugo Ugoletti). Qui Francesca Bertini, veste i panni di Maddalena, apparentemente, felicemente sposata, che però porta dentro di sé una segreta colpa. All’apparire del giovane Giacomo, che credeva morto, suo antico amante di una notte, confessa al marito la colpa, sperandone il perdono, ma viene scacciata di casa da questi. Disperata va da Giacomo, ma il senso di colpa lo conduce al suicidio. La storia, pur raffazzonata, porta al cinema migliaia di spettatori.

Gli altri film Lisa Fleuron, L’ombra e La sfinge, non convincono. Addirittura qualcuno è definito “brutto” dalla critica e anche, anni dopo, dalla stessa Francesca Bertini, molto severa con se stessa, quando è invitata nei diversi Festival che le dedicano delle “personali”.

Tra il 1921 e il 1925 ella appare in altri quattro film: Il nodo (1921), La blessure (1922), La giovinezza del diavolo (1922), Fatale Bellezza (1922, ma terminato nel 1919, fermo per problemi di censura: scene d’amore troppo allusive), Fior di levante (1925). Si salva solo La blessure (che con l’arrivo del Fascismo avrà il titolo italiano, La ferita), una commedia sentimentale in cui due fidanzati separati dal destino si riuniranno sul transatlantico per sempre. Banale soggetto che però offrì alla Bertini la possibilità di un’ultima prova dignitosa. Il pubblico accorre al cinema per questo insolito happy end del melodramma italiano.

Intanto la diva non rinuncia a curare la vita privata: nell’agosto del 1921, all’età di 39 anni, decide di sposare il gioielliere svizzero Alfred Cartier; e, cosciente che il suo tempo è passato, rifiuta, saggiamente, un contratto vantaggioso con la Fox, un milione di dollari per cinque film.

Francesca Bertini, la diva che sullo schermo diede la vita a donne passionali, fatali, avvenenti, dilaniate dai rimorsi, in balia delle tempeste sentimentali, facendo sognare il pubblico femminile e maschile, ma dalla vita privata dal basso profilo e morigerata, morirà nel 1985, a 93 anni. Sovente ospite di programmi televisivi raccontò l’epoca del muto, permettendo a più generazioni di giovani di conoscere un pezzo del Novecento, con la sua lucidità, la sua competenza cinematografica e il forte senso di autocritica.

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