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Transizione prolungata o no deal. Il Covid-19 allontana la Brexit

Tra i tanti effetti negativi del Covid-19 è da annoverarsi anche il rallentamento dei negoziati tra Ue e Regno Unito sulle relazioni per il post-Brexit che avrà inizio, secondo quanto previsto dal Withdrawal Agreement, dal primo gennaio del prossimo anno.

A causa dell’emergenza coronavirus ci sono state solo tre tornate negoziali invece delle previste cinque, e questo non ha permesso di colmare il divario tra la posizione britannica e quella europea su molti temi tra i quali la cooperazione sulla sicurezza, la parità di condizioni su concorrenza e aiuti di Stato, i diritti dei lavoratori, la tutela dell’ambiente e il settore della pesca. Le posizioni tra i negoziatori delle due sponde della Manica sono diverse perché si fondano su presupposti strategici diversi.

Il Regno Unito persegue un accordo di libero scambio sulla falsariga del Ceta, l’accordo che l’Ue ha stipulato con il Canada. Un accordo globale che non si limita a regolare le questioni meramente commerciali ma tocca molti altri temi, tra cui l’apertura del mercato dei servizi finanziari, il reciproco riconoscimento delle qualificazioni professionali, la partecipazione alle gare di appalto pubbliche, la concorrenza, i diritti dei lavoratori, l’ambiente. Ma a differenza di quanto previsto nel Ceta, Downing Street lavora ad un modello che regoli queste questioni senza un’integrazione normativa troppo stringente. L’obiettivo del governo di Sua Maestà è infatti quello di garantire al Regno Unito la più ampia flessibilità sulle proprie regole interne, mantenendo al contempo la capacità di negoziare liberamente, una volta affrancata dai vincoli normativi dell’Ue, altri accordi di libero scambio con Paesi terzi come Usa, Giappone, Australia e Nuova Zelanda.

Sul fronte opposto, invece, l’Ue richiede, come condizione per l’eliminazione delle tariffe e delle quote negli scambi commerciali, la definizione di un insieme di regole comuni molto stringenti in numerosi settori, con l’intento di raggiungere un elevato grado di integrazione normativa in modo da scongiurare la possibilità che Londra, non più vincolata alle regole comunitarie, possa acquisire un vantaggio competitivo nell’attrarre investimenti e partners commerciali.

Al momento, tenuti in conto i mancati progressi nei negoziati, la prospettiva di raggiungere un accordo entro pochi mesi appare sempre più difficile da realizzarsi, tanto più che in queste settimane l’attenzione della Gran Bretagna e dei 27 membri Ue è evidentemente focalizzata sulla gestione dell’epidemia, sia nei suoi aspetti sanitari che nella gestione della correlata crisi economica. Pertanto tra poche settimane Londra e Bruxelles si troveranno a dover scegliere tra un probabile “no deal” oppure un’estensione del periodo di transizione. La dead line è il 30 giugno di quest’anno. Tale data, infatti, secondo quanto previsto dal Withdrawal Agreement, rappresenta il termine entro il quale il Regno Unito può richiedere un’estensione del periodo di transizione, è possibile un solo rinvio e per una durata massima di due anni.

In realtà fino ad ora Boris Johnson ha sempre escluso un rinvio insistendo sul fatto che la Gran Bretagna lascerà l’Unione europea definitivamente e per sempre il primo gennaio del prossimo anno, che ci sia un accordo o meno.

Di certo sta cambiando la prospettiva relativa alla strategia di uscita del Regno Unito. La prospettiva era quella di pagare un costo economico sul breve termine in cambio di maggiori benefici sul lungo termine determinati dalla possibilità di raggiungere intese commerciali con gli Usa e altri Paesi terzi, e di mantenere piena libertà sulle proprie regole interne, per fare di Londra la Singapore dell’Atlantico.

Ma l’epidemia ha messo fortemente in discussione questa strategia. È difficile oggi immaginare un Paese che abbia il tempo per negoziare un accordo commerciale bilaterale con la Gran Bretagna in piena gestione dell’emergenza, seppure i negoziati con Paesi quali gli Usa o il Giappone stiano proseguendo. E intanto sia l’economia britannica che quella europea si mostrano in forte affanno per effetto della crisi economica legata alla gestione dell’epidemia da coronavirus.

In questo contesto l’esito dei negoziati su Brexit sembra legato all’evolversi della gestione dell’emergenza Covid-19. Più durerà il lockdown e più non è del tutto da escludere che si possa addivenire ad un allungamento del periodo di transizione, seppure prevedibilmente per un periodo inferiore al termine massimo di due anni. Anche se al momento la soluzione più probabile resta quella di uno scenario “no deal”, con le relazioni commerciali tra Regno Unito e UE da realizzarsi secondo le regole del Wto.

E da questi temi che ha avuto avvio un dibattito online con autorevoli rappresentanti della Business Community e delle Istituzioni della City Londinese, finalizzato ad analizzare lo stato delle relazioni bilaterali tra Italia e Regno Unito, cui hanno partecipato, oltre all’autore di questa analisi, anche Mark Wheatley, consigliere della City of London e amministratore di una società di consulenza della City, Flavio Menghini, fellow di The Smart Institute e esperto di commercio internazionale, David Beer, consulente con una lunga carriera in Shell International, Pasquale Merella, presidente di The Smart Institute e Chief Risk Officer presso Green Arrow Capital SGR e Maurizio Bragagni, presidente dei British Italian Conservatives di Londra e CEO di Tratos Ltd.

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