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Tutte le funzioni (manifeste e latenti) del Csm

Le intercettazioni realizzate grazie ai trojan inseriti nei cellulari di alcuni magistrati di primo piano sta mettendo in evidenza una serie di negoziazioni tra i magistrati e tra questi e i politici che sconcertano l’opinione pubblica. Da più parti si invoca una riforma del Csm che porti all’eliminazione delle correnti in seno allo stesso Csm, magari sostituendo l’elezione dei suoi membri con una estrazione a sorte.

Una spassionata analisi organizzativa dell’architettura del nostro sistema giudiziario, e del ruolo del Csm in seno a tale sistema, non potrebbe, a mio avviso, non evidenziare che quanto i trojan hanno messo in luce è intrinsecamente inevitabile in questo sistema.

Vediamo le funzioni sostanziali (al di là di quelle formalmente enunciate) che il Csm deve svolgere nel nostro sistema giudiziario. Esse sono due: gestire l’assegnazione delle posizioni dirigenziali degli uffici giudiziari (funzione formalmente prevista) e orientare pesantemente la giurisprudenza (formazione non prevista formalmente ma presente in maniera sì latente ma molto efficace). Formalmente il Csm deve occuparsi anche dei provvedimenti disciplinari. Il fatto è che i provvedimenti disciplinari, di cui il Csm si occupa magari con qualche lentezza, possono assumere una connotazione particolare quando si incrociano con la possibilità di rimuovere un magistrato e spostarlo per “incompatibilità ambientale”.

Analizziamo i due punti separatamente. Iniziamo dalla nomina alle funzioni dirigenziali degli uffici giudiziari. La competenza di nomina a tali funzioni attribuita al Csm è espressione di una concezione quanto meno retrò. Una concezione secondo la quale il dirigente non è tanto colui che sa programmare il lavoro e coordinare i collaboratori quanto il “più bravo” in uno specifico settore. Questa concezione latente fa sì che venga considerato migliore colui che interpreta la legge allo stesso modo in cui essa viene interpretata dai selezionatori. È inevitabile che la funzione di assegnare le posizioni dirigenziali degli uffici giudiziari diventi area di contrapposizione politica e, quindi, di negoziazione. Ogni diversa interpretazione della norma, quindi ogni corrente che interpreta la norma in un certo modo, vorrà occupare le posizioni dirigenziali degli uffici giudiziari.

Quella della concezione della funzione dirigenziale è una pecca caratteristica di tutta la nostra cultura organizzativa. In questo periodi di pandemia in cui i sistemi sanitari sono sotto stress è emerso il fatto che i sistemi che meglio stanno reagendo non conoscono la figura del primario. Il nostro codice civile all’art. 2095 suddivide i lavoratori dipendenti in quattro categorie – dirigenti, quadri, impiegati e operai- ma non definisce veramente i contenuti di queste categorie. Questa definizione è lasciata alla giurisprudenza che individua il dirigente come l’alter ego dell’imprenditore, dandogli una pesante connotazione personalistica a scapito di una auspicabile connotazione professionale. In maniera simile gli uffici giudiziari non vengono individuati come tali, come strutture composte di più individui coordinati da un dirigente. Significativo ci appare il fatto che, anziché parlare di dirigente di una procura, si parli di procuratore della repubblica e di sostituto procuratore. Qui il fenomeno dell’istitutional overlapping tra persona privata e funzione pubblica emerge in maniera dirompente.

Qui possiamo trarre una prima indicazione. Per evitare che il Csm sia giocoforza un suk in cui vengono scambiate posizioni di potere politico, più che riformare il Csm bisogna riformare il meccanismo di nomina alle posizioni di vertice degli uffici giudiziari. Non c’è bisogno di pensare a meccanismi elettivi come negli Stati Uniti. Basterebbe un meccanismo a rotazione tra i titolari delle qualifiche apicali presenti nell’ufficio (a questo proposito non va dimenticato che da noi il passaggio di grado in magistratura è automatico e legato presso che esclusivamente all’anzianità). Magari lasciando al Csm la gestione degli spostamenti tra gli uffici, vuoi su richiesta dei magistrati che vogliono trasferirsi, vuoi sul principio che dopo un certo numero di anni il passaggio ad altra sede è obbligatorio come condizione per l’accesso al grado superiore.

Passiamo ora al secondo punto che ci siamo proposti di analizzare: i provvedimenti disciplinari e la incompatibilità ambientale. Questa accoppiata scatena una seconda funzione latente del Csm: l’orientamento della giurisprudenza. Non raramente magistrati “influenti” hanno rilasciato dichiarazioni più o meno minacciose alla stampa in presenza di sentenze non in linea con l’interpretazione prevalente del tipo: “ne discuteremo al Csm”. Quindi l’interpretazione della norma, più che un fenomeno culturale da dibattere in convegni di studi, diventa una sorta di clava sull’utilizzo della quale le varie correnti si scontrano. Qui la leva che il Csm può utilizzare è quella della “incompatibilità ambientale”. Incompatibilità ambientale in buona sostanza vuol dire che il singolo magistrato deve adeguarsi alla linea giurisprudenziale prevalente, altrimenti può essere trasferito d’ufficio.. L’indipendenza del magistrato a questo punto dove è andata a finire? In nessuna organizzazione sana il dissenter viene emarginato. Al contrario chi ha opinioni diverse viene valutato e protetto perché garanzia di sviluppo.

Il suggerimento qui è semplicemente quello di eliminare la “incompatibilità ambientale” dalle possibile cause di provvedimenti disciplinari.

Questa architettura, non formalmente enunciata nella norma ma pesantemente ed efficacemente attiva in maniera latente, fa sì che emergano tra magistrati figure leader non tanto legittimate dalla loro cultura giuridica quanto dalla loro capacità manovriera. Non c’è da meravigliarsi se i magistrati dedichino tanto tempo ai mass media a scapito del tempo dedicato alla loro attività (non dimentichiamoci che le nostre carceri risultano sovraffollate non perché non siano sufficientemente grandi ma perché il 50% ca. dei detenuti è in attesa di giudizio).

Le domande che dobbiamo porci sono: avremo il coraggio di affrontare veramente le cause delle disfunzioni fatte emergere dai trojan o ci limiteremo a interventi sui sintomi? Siamo maturi abbastanza per percepire la differenza tra cause e sintomi? Quella dello institutional overlapping è una causa latente che sta dietro a molte disfunzioni del nostro paese. Siamo maturi per affrontarla?

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