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Perché la Cina non si fermerà a Hong Kong. Lo spiega Cooper (Aei)

Oggi Hong Kong, domani chissà. Una sola cosa è certa dei piani di Pechino, spiega a Formiche.net Zack Cooper, esperto di strategia militare dell’American Enterprise Institute (Aei) con un trascorso al Pentagono e al National security council (Nsc): con l’approvazione definitiva della nuova Legge sulla sicurezza nazionale e l’imminente apertura della agenzia di sicurezza del governo cinese, il Porto Profumato ha perso la sua autonomia e non c’è (quasi) niente che la comunità internazionale possa fare.

Cooper, ora i manifestanti a Hong Kong hanno paura.

Hanno ragione. È con ogni probabilità la peggiore crisi a Hong Kong fin dalla cessione nel 1997. La legge sulla sicurezza nazionale, di cui peraltro sappiamo poco e nulla, è solo un tassello. Pechino vuole sbarazzarsi della divisione dei sistemi giudiziari, e accelerare il già rapido soffocamento dei diritti e delle libertà civili.

Quanto tempo c’è?

Non sarei sorpreso se le cose cambiassero da domani. Il primo luglio cade l’anniversario degli accordi del ’97, come ogni anno ci saranno enormi proteste di piazza. Quest’anno le autorità le hanno vietate con il pretesto del virus. Non escludo una mossa preventiva di Pechino.

Quale?

Usare le manifestazioni di questo mercoledì per dare il colpo di grazia al movimento di protesta, arrestare i leader, le figure più mediatiche nel giro di un paio di settimane. E poi inaugurare il nuovo sistema giudiziario. Ovvero non processarli a Hong Kong, ma direttamente nella Mainland China. È un approdo ormai inevitabile.

Ci sono precedenti?

C’è stato qualche caso, come un venditore di libri arrestato a Hong Kong e processato nella Cina continentale, ma parliamo di casi isolati, che hanno suscitato un grande clamore mediatico. Adesso c’è il serio rischio che diventi la norma. Anche perché con la nuova legge diventeranno reati gesti che non dovrebbero esserlo, come la non meglio definita “sovversione”, o anche solo le critiche al governo cinese.

La comunità internazionale ha fatto troppo poco?

La verità è che non poteva e non può salvare Hong Kong. Per il Partito comunista cinese (Pcc) è questione di vita o di morte, ne va della sua presa sulla società cinese. Pechino non vuole correre il rischio. Questo ovviamente non significa che la comunità internazionale non dovrebbe fare qualcosa.

Cosa?

Alzare la voce, ad esempio. Non cambierà le carte in tavola, ma tiene i riflettori accesi sulle violazioni dei diritti umani. Se le proteste dei prossimi giorni saranno represse con la forza, speriamo che qualcuna delle democrazie occidentali coinvolte negli accordi del ’97 così come altri Paesi asiatici vogliano dire la loro.

Dopo Hong Kong è il turno di Taiwan?

Hong Kong e Taiwan sono due realtà completamente differenti. Lo sono senz’altro dal punto di vista strategico americano. Quando Hong Kong è passata in mano cinese nel 1997 nessuno, né gli Usa né il Regno Unito, ha pensato di mettere in conto un intervento militare nel caso in cui i patti fossero violati. Se la Cina invadesse domani Taiwan, ci sarebbe una reazione molto forte e immediata da parte degli Stati Uniti e di altri Paesi della regione.

A proposito, le insofferenze verso la Cina aumentano fra le potenze della regione. C’è la possibilità che uniscano le forze?

Temo che questa sia un’idea figlia di una percezione europea della politica estera e di sicurezza. La Nato è nata come baluardo contro l’Urss, oggi non ci sono le condizioni per una “Nato anticinese” nel Pacifico.

Ci spieghi meglio.

Semplice. Perché quello europeo è per gran parte un teatro di terra. La regione fra l’Oceano Pacifico e Indiano è fatta di potenze marittime. Diverse potenze regionali, Corea, Giappone, Vietnam, Taiwan, Malesia, Indonesia, Filippine, India, hanno dispute territoriali aperte con Pechino. Ma ognuno di questi conti in sospeso è diverso dagli altri. Non esiste una situazione simile a quella degli Stati baltici, che condividono tutti il timore per il revisionismo territoriale russo. Un’alleanza regionale è dunque improbabile. Anche perché la leadership cinese si è dimostrata brava a prendere di mira questi Paesi uno alla volta, fino a farli desistere.

Gli Usa proveranno comunque a metterla in piedi?

All’interno degli apparati c’è più di una persona convinta di questo. Il problema è che, ora, Washington non è la sede ideale per fare da regia a una simile alleanza. Mettere insieme i Paesi del G7, l’India, l’Australia, la Corea del Sud richiede una leadership di ferro che mal si sposa con la strategia dell’America First di Donald Trump

E con Joe Biden?

Con lui le carte sul tavolo possono cambiare. La vocazione democratica è quella di costruire alleanze regionali con un ruolo di primo piano degli Stati Uniti, anche in Asia. Ma fino alle elezioni di novembre queste rimangono idee sulla carta.

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