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Così Ue e Usa possono vincere la sfida cinese. Parla Friedlander (Atlantic Council)

In un recente fondo pubblicato sul sito dell’Atlantic Council Julia Friedlander, vicedirettrice del Global Business and Economic Program, responsabile degli Affari europei al National Security Council dal 2017 al 2019, un lungo trascorso al Tesoro, ha lanciato una provocazione: Usa e Ue devono mettere nero su bianco, al più presto, una strategia comune per far fronte alla sfida cinese. A Formiche.net l’analista americana racconta come.

Partiamo dal vertice Cina-Ue, chiuso senza neanche un comunicato congiunto. Perché l’Europa, a differenza dell’America, non trova la quadra?

Sappiamo che negli Stati Uniti esiste un consenso bipartisan sulla questione cinese. In effetti, è forse l’unico tema su cui repubblicani e democratici riescono a parlarsi. Lo stesso non si può dire dell’Europa, dove però c’è una leadership in via di formazione, i fatti e i toni lo dimostrano. Non solo fra Paesi membri, ma anche all’interno delle stesse istituzioni Ue si allarga la fronda di chi chiede di alzare l’asticella. È il caso, fra gli altri, dei burocrati che devono regolamentare lo spazio economico, quello più esposto a rischi di intelligence.

C’è margine per un dialogo strutturato sulla Cina fra Ue e Usa?

Lo spero. C’è una grande opportunità: Europa e Stati Uniti hanno capito che hanno un problema in comune. Questo non vuol dire che, per risolverlo, debbano usare gli stessi strumenti, o muoversi in contemporanea. Negli States il legislatore ha assunto una postura molto aggressiva nei confronti di Pechino e non perde occasione di rimarcarla. In Europa prevale la linea della Commissaria Margrethe Vestager, che chiede una concorrenza libera e pulita.

L’ombrello Ue ostacola o facilita una strategia congiunta sulla Cina?

È un’arma a doppio taglio. Se c’è una cosa che ho imparato al Dipartimento del Tesoro è che le regole, da sole, non bastano. I Paesi europei, Italia in testa, sono sotto pressione. Le ultime cifre del Fondo monetario internazionale prevedono nubi in arrivo. La leadership comunitaria può aiutare i Paesi membri a giustificare con un “vincolo esterno” decisioni politicamente sensibili sugli investimenti esteri.

Negli Stati Uniti c’è il Cfius (Committe on Foreign investments of the United States), una vera macchina da guerra nello screening degli investimenti esteri. In Europa può nascere qualcosa di simile?

Assolutamente sì, se c’è la volontà politica di farlo. La cosa che più impressiona del Cfius è la capacità di mettere seduti intorno al tavolo gli stakeholders responsabili, i diversi dipartimenti coinvolti, le agenzie di intelligence, per poi trovare la quadra. In Europa non esiste ancora un sistema così strutturato. Il nuovo golden power italiano è un passo avanti. Certo non ci si può aspettare di rivoluzionare decenni di burocrazia da un giorno all’altro, ci vuole tempo.

C’è chi teme che uno screening più severo spaventi gli investitori. Questo, però, non sembra il caso americano.

Esatto, e questo è dovuto a tanti fattori. Il primo: i casi sottoposti al Cfius sono segreti, non ci sono sessioni aperte al pubblico, sono tutte riservate. Io stessa, quando lavoravo sul dossier al tesoro, non avevo accesso a tutti i dati per capire le relazioni fra le aziende chiamate in causa. Secondo: è un procedimento altamente tecnico, che cioè lascia poco spazio alla discrezionalità politica. Terzo: tutti gli investimenti o i tentativi di acquisizione e fusione sono passati al filtro. Gli investitori preferiscono sempre regole certe al limbo.

Torniamo al dialogo Usa-Ue sugli investimenti cinesi. Bisogna dargli una forma permanente?

Lo ribadisco, anche se le distanze non mancano, come ha ricordato ancora martedì il Commissario al Commercio Phil Hogan. Bisogna trovare un terreno comune, gli strumenti non mancano, dalla sicurezza degli investimenti al controllo dell’export e, nel caso degli Usa, le sanzioni, è importante non sovrapporli. In questo momento ho l’impressione che Washington stia “scatenando la bestia” in ogni direzione.

Prendiamo il 5G. Con una sola decisione il Dipartimento del Commercio ha di fatto tranciato in due la catena di fornitura di Huawei. Non rischia di rivelarsi un boomerang?

Potrebbe, soprattutto per le compagnie tech e gli investitori americani. È un tema spinoso: l’obiettivo finale ha una ratio ben precisa, e anche qualche buona ragione. L’attuazione è la parte difficile. Non bisogna commettere passi falsi.

Ad esempio?

Ad esempio, credere di poter cambiare l’atteggiamento dei cinesi. Non possiamo farlo, non da soli almeno. È vero, talvolta il pressing sugli alleati è stato un po’ border-line. Soprattutto quando sullo stesso piatto sono state poste questioni diverse, come la vicenda di Huawei e le spese per la Difesa. Un messaggio, però, deve passare in modo chiaro.

Quale?

La comunicazione di intelligence è davvero a rischio se il 5G viene appaltato ad aziende cinesi sospette. Ho parlato con ufficiali che seguono il dossier, prevedere un possibile taglio del flusso informativo fra alleati non è una minaccia, è ciò che accadrà. Certo, c’è modo e modo di spiegarlo. Gli aut-aut sono controproducenti. Lavorare con pazienza insieme ai partner sarà più noioso, ma nel medio-lungo periodo dà ben altri frutti.

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