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Incidente nell’Artico. Così Putin ci fa campagna elettorale

“Ma lei è a posto con la testa oppure ha qualche problema?”: il presidente russo, Vladimir Putin, è sbottato così contro il responsabile della Norilsk-Taimyr Energy di Norilsk, città sopra al Circolo polare artico da dove è scaturito un versamento enorme di gasolio che è finito nel Mare di Kara, attraverso il fiume Pyasina, in cui a sua volta affluisce l’Ambarnaya. È lì che è nato il problema: un serbatoio di gasolio piantato nel permafrost ha avuto un cedimento fondale, e il contenuto è caduto nel fiume sottostante alla centrale elettrica che alimentava.

Putin incolpa la società, il responsabile dell’impianto è sotto custodia cautelare fino al 31 luglio, e il Cremlino ha dichiarato lo stato di emergenza (in mezzo all’emergenza Covid) perché quelle 20mila tonnellate di diesel sembrano inarrestabili. Le attività di contenimento sono iniziate in ritardo, la società ci ha messo due giorni prima di allertare il ministero dell’Emergenze. Lo ha detto il ministro Yevgeny Zinichev, che ha comunicato di persona a Putin l’accaduto prima di parlare in diretta televisiva con le autorità locali.

“Perché il governo è stato informato solo due giorni dopo?”, ha urlato il presidente davanti agli occhi dei cittadini: “Dobbiamo venire a sapere della situazione di emergenza dai cittadini?”. Prendendo per sincero lo sfogo di Putin, quello che emerge è un evidente scollamento tra il potere centrale e quello regionale.

Di più: c’è insofferenza da parte del presidente, che sta trasformando questa separazione in una carta a suo favore. In calo di consensi, Putin cerca di mettere i cittadini contro le amministrazioni locali per far ricresce la fiducia nei suoi confronti. Per esempio, ha affidato ai governatori federali il compito di decidere la gestione e i meccanismi di chiusura e ri-apertura nell’epidemia. Ossia ha spostato dal Cremlino le decisioni più difficili, quelle che in un senso o nell’altro si sarebbero portate dietro le critiche contro l’apertura totale in nome di patria e lavoro, o di chi chiedeva lockdown prolungati per salvaguardare la salute.

Ma questa distanza è un segno, allo stesso tempo, di una debolezza interna – quella di un potere senza eredità – che subisce inoltre il peso della crisi economica aggravata dalla pandemia. La reazione al disastro ambientale è anche strumentale, dunque: Putin non può permettersi di apparire debole su una faccenda problematica come l’inquinamento, e cerca di costruirci attorno una sovra-narrativa (lui che gestisce l’emergenza contro il governatore contro i dirigenti locali che provavano a insabbiare tutto).

Altro elemento in più: tutto avviene nell’Artico, dove lo scioglimento dei ghiacci provocato dal global warming (aspetto da non sottovalutare proprio nella subsidenza che ha prodotto lo scioglimento del permafrost e dunque il danno strutturale al serbatoio di Norilsk) sta aprendo nuovi spazi. Teatro di competizione militare con gli Stati Uniti – che Putin intende ingaggiare a livello narrativo anche sul clima, contro le anti-scientifiche posizione di Donald Trump – e con la Cina e gli altri paesi dell’area (dai Baltici agli Scandinavi, fino al Regno Unito).

Mosca ha creato una Brigata artica all’interno della Flotta del Nord e piazzato basi nelle Franz Josef Land, nell’Oblast di Arkhangelsk, a est della Svalbard. L’interesse è altamente strategico: lo scioglimento dei ghiacci permette di raggiungere per diversi mesi all’anno Shanghai passando dal Passaggio a Nord Ovest, e risparmiando 2800 miglia nautiche nella battutissima rotta che parte dal porto di Amburgo (e per ora doppia Suez).

L’Artico è un quadrante strategico altamente futuribile in cui Putin non può permettersi di cedere spazi a scivoloni come quello di Norilsk, col rischio di rinnovare preoccupazioni legate a eventi passati come il disastro ambientale della repubblica di Koni – quando nel 1994 un guasto a un oleodotto produsse il versamento di quasi centomila tonnellate di greggio nel fiume Pechora che raggiungere Barents (per anni e anni, in un areale vastissimo, si lavorò al disinquinamento, mai del tutto risolto).

Val la pena a questo punto di ricordare che la società responsabile del danno è una sussidiaria della Norilsk Nickel, compagnia mineraria leader globale nell’estrazione del nickel, controllata dall’oligarca Vladimir Potanin, uno degli uomini più ricchi della Russia, compagno di vacanze – di solito in uno dei suoi tre super-yacht (dal più vecchio al più nuovo, il “Barbara”, 88 metri; il “Nirvana”, 88,5; l'”Anastasia”, 76, comprato nel 2018) – e di hockey di Putin.

Il legame aiuta nel leggere la postura presidenziale, così come a ricordare qualche vecchia storia. La società nichelifera di Potanin è considerata tra le più inquinanti di tutta la Russia: Norilsk è circondata da “1,2 milioni di acri di foresta morta” spiegava nel 2007 il New York Times; nel 2018 invece l’Atlantic aveva prodotto un reportage in cui scriveva che nella zona “la natura, in un raggio più o meno delle dimensioni della Germania, è morta a causa del grave inquinamento atmosferico”.

Putin aveva già fatto pressioni sulla società e nel 2017 aveva ottenuto che nell’arco di sei anni la Norilsk Nickel avesse ammodernato tutto il suo apparato nella zona – Potanin aveva promesso un investimento da 17 miliardi di dollari per ridurre del 75 per cento le emissioni inquinanti. Ora l’incidente è un imbarazzo per il Cremlino, che arriva a meno di un anno dal devastante danno nucleare di Severodvinsk, nel nord del Paese, attracco per sottomarini nucleari, zona di test per missili balistici, e come nel caso dell’Artico ambito della proiezione di forza internazionale che Putin pianifica per il suo paese.

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