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Serbia-Usa, perché la visita di Vucic conta. Lo spiega Fruscione (Ispi)

È molto più di un appuntamento formale la visita ufficiale del presidente serbo Aleksandar Vucic alla Casa Bianca, per più di una ragione. La prima: il tempismo. Vucic ha festeggiato a Pennsylvania Avenue una vittoria schiacciante alle elezioni politiche. La conta dei voti era ancora in corso, ma al 90% delle schede scrutinate il bilancio era già nettissimo: il suo partito, Sns (Partito progressista serbo), ha preso il 63,45 dei voti e 189 seggi, i socialisti, partner di governo, il 10%, cioè 32%. Se non è un plebiscito, poco ci manca.

“Il risultato era atteso – ci spiega Giorgio Fruscione, ricercatore dell’Ispi (Istituto di studi di politica internazionale) ed esperto di Balcani – complice un’opposizione divisa fra chi ha optato per il boicottaggio e chi ha partecipato. Ora il Parlamento è quasi monocolore, e il Paese è un passo più vicino all’autoritarismo”.

Il giudizio può apparire severo ma riflette il verdetto di tante organizzazioni internazionali sui diritti umani. È il caso di Freedom House, che in un report fresco di pubblicazione ha definito quello serbo “un regime ibrido”.

Elezioni a parte, la visita di Vucic alla Casa Bianca ha un significato geopolitico non secondario. Perché mai Donald Trump dovrebbe occuparsi di Serbia? Perché, in questo momento, anche i Balcani possono trasformarsi in una risorsa per le elezioni presidenziali, spiega il ricercatore dell’Ispi.

Sullo sfondo dell’incontro c’è infatti la soluzione della disputa fra Serbia e Kosovo. Dal 2013 ad oggi il processo di normalizzazione dei rapporti ha fatto passi risibili. Da qualche mese a questa parte gli Stati Uniti hanno deciso di prendere il timone in mano. “Sono rientrati nel dossier balcanico per sottrarre all’Ue il dialogo con il Kosovo e portare i due Paesi a una soluzione in autunno, prima delle presidenziali – dice Fruscione – Trump alle tante contese che ha cercato di risolvere potrebbe così aggiungere una “pax balcanica”. Poco importa se la pax fra Belgrado e Pristina non è quella voluta da Bruxelles, gli Usa non hanno intenzione di fare un passo indietro. Lo dimostra la nomina a inviato speciale di Richard Grenell, già ambasciatore in Germania, poi scelto da Trump come capo (temporaneo) dell’intelligence Usa, insomma una primissima fila dell’amministrazione.

La road map americana è chiara. “Appropriarsi di un dialogo ormai finito su un binario morto, chiudere una questione aperta da più di venti anni. Poi rimuovere i dazi del 100% che il Kosovo ha imposto nel 2018 su tutte le merci da Serbia e Bosnia Erzegovina, introdotti dopo il blocco diplomatico organizzato da Belgrado per evitare l’entrara del Kosovo nell’Interpol”.

La partita per il Kosovo non è però l’unica di interesse per Washington Dc. Non è infatti un mistero che la Serbia sia divenuta negli anni un tassello-chiave della presenza cinese nel Vecchio Continente. Lì passa la nuova Via della Seta di Xi Jinping, che lo stesso Vucic, durante la pandemia, ha definito “un fratello” ringraziando per gli aiuti.

È talmente poco un mistero, spiega l’esperto dell’Ispi, che “gli Stati Uniti non ne sono scandalizzati, sanno che questa vicinanza esiste da tempo. La Cina ha aumentato i suoi investimenti nel Paese, e punta molto sulla ferrovia Belgrado-Budapest, i cui contenuti sono stati dichiarati top-secret un mese fa. Di recente, Belgrado ha importato 1000 telecamere con tecnologia di riconoscimento facciale dalla Cina. Sono legami più che consolidati”.

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