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Giganti del web nel mirino di antitrust e politica. L’avv. Barresi spiega perché

Di Rosa Giovanna Barresi

Nel 1937, Ronald Coase pubblicò il suo articolo “La natura dell’azienda”, gettando le basi della moderna dottrina antitrust. Coase portò in risalto il ruolo dei costi che le aziende devono sostenere per portare a termine una transazione. In base alla sua teoria, le aziende si espandono proprio in modo da abbattere questi costi, utilizzando tutti gli strumenti che hanno a disposizione. Un’azienda può espandere il suo “perimetro di comando e controllo” comperando altre aziende con cui ha rapporti abituali, acquisendo brevetti industriali o vincolando fornitori e clienti mediante contratti di esclusiva commerciale.

Non appena si consolida il rapporto gerarchico, semplici procedure aziendali sostituiscono attività più costose, come i negoziati pre-contrattuali, riducendo i costi di transazione e generando un ingiusto vantaggio nei confronti della concorrenza. In conclusione, nel valutare il confine tra un gruppo di aziende ed il mercato propriamente detto, non è sufficiente l’analisi della struttura azionaria, ma occorre ricercare il punto dove finisce qualsiasi forma di controllo.

Ovviamente, risulta difficile applicare questa tecnica ad un’organizzazione decentralizzata (essendo composta da segmenti autonomi, al suo interno non esiste una specifica entità controllante). Al momento, però, i giganti del web mantengono ancora la stessa struttura gerarchica delle corporation studiate da Coase nel 1937.

GOOGLE: MOLTE VERTENZE, MOLTO ONORE

Nei prossimi mesi, i funzionari del U.S. Justice Department potrebbero aprire un procedimento antitrust contro Google, a conclusione di un’indagine avviata un anno fa. Che qualcosa andasse storto lo si era già capito lo scorso febbraio, quando venne fatta filtrare la notizia di un richiamo scritto ricevuto da Google riguardo ai “ritardi inaccettabili” con cui stava consegnando la documentazione richiesta. L’azienda aveva risposto tramite un suo portavoce di aver già consegnato milioni di pagine di documenti.

La vertenza, che segnerebbe il ritorno del Dipartimento ad un ruolo più attivo nei confronti delle aziende Usa dopo un armistizio multidecennale, dovrebbe riguardare comportamenti volti ad assicurare il monopolio nel mercato dei motori di ricerca. La situazione è molto incerta: lo scorso 26 giugno gli avvocati del Dipartimento e le autorità di alcuni stati stavano ancora discutendo sui capi di imputazione. D’altronde, l’Avvocato generale del governo, William Barr, deve ancora prendere una decisione definitiva. Un portavoce del Dipartimento si è rifiutato di commentare la notizia.

Il commissario europeo per i problemi della concorrenza ha aperto tre procedure di infrazione contro Google e società collegate, irrogando sanzioni per 9 miliardi di dollari, ma il gruppo ha proposto appello in tutti e tre i casi. Anche la commissione federale per il commercio aveva investigato Google in merito ad una possibile distorsione dei criteri di ricerca. L’indagine venne chiusa nel 2013 dopo che Google si era impegnata a migliorare alcuni suoi comportamenti interni.

IL PROBLEMA DI FACEBOOK

Attualmente gli utenti registrati di Facebook sono in tutto circa due miliardi e mezzo. Nei soli Stati Uniti, il suo bacino di utenza conta 175 milioni di persone. Le informazioni che possiede sulle abitudini e sui desideri di questi utenti garantiscono a questo gigante del web 70 miliardi di dollari di ricavi annui. Purtroppo, le esigenze delle due principali fonti di reddito (la propaganda elettorale e la pubblicità corporate) hanno iniziato ad essere in contrasto tra loro, e questo potrebbe essere un brutto problema.

LE ELEZIONI PRESIDENZIALI

I politici avranno sempre necessità di far conoscere il loro messaggio, e continuano a comperare spazi pubblicitari da Faceboook, pur criticando (a parole) la politica di gestione dei contenuti messa in pratica dalla piattaforma. La scorsa settimana, il comitato per la campagna elettorale di Joe Biden ha comperato inserzioni su Facebook per criticare il comportamento di… Facebook. Il comitato per la rielezione di Donald Trump, dal canto suo, cerca di indirizzare i suoi sostenitori verso Parler, una piattaforma alternativa che consente la pubblicazione dei messaggi più accesi. Comunque, in base ai dati pubblicati dalla piattaforma, in due anni il presidente Trump ha comperato pubblicità per 45 milioni di dollari, mentre il suo probabile antagonista Biden ne ha comperato quasi la metà (23.4 milioni). Queste spese sono state sostenute direttamente dai loro bilanci personali per la campagna elettorale.

QUANTO VALE UN PAC?

Un Comitato di Azione Politica (PAC, political action committee) è un gruppo di persone che condividono l’obiettivo di assicurare la vittoria di un candidato, oppure la sua sconfitta, visto che negli Stati Uniti è ammessa anche la pubblicità elettorale negativa. Un Pac può finanziare uno o più partiti politici oppure uno più candidati, anche incoraggiando candidature di disturbo, allo scopo di frazionare i voti del suo avversario. Secondo la legge elettorale federale i fondi di un Pac devono essere gestiti da un tesoriere e vanno conservati su conti bancari appositi, separati dalla contabilità del partito. Per questo motivo, la definizione legale dei Pac è quella di fondi a contabilità separata. Nonostante le limitazioni previste dalla legge, il flusso di cassa di un Pac può raggiungere il milione di dollari.

I SUPERPAC

L’attività dei SuperPac è limitata al finanziamento di campagne pubblicitarie finalizzate all’elezione o alla sconfitta di un candidato specifico senza limiti di spesa. Questi nuovi Pac sono entrati nell’uso dal 2010, dopo che la Corte di Appello li ha legittimati nella sentenza 2010: SpeechNow.org v. Federal Election Commission con la definizione di “comitati indipendenti di contributo alle spese”. Come per i PAC, il principio che regola la legislazione federale è quello di assicurare una rendicontazione trasparente dei flussi di cassa, che però nel caso dei SuperPAC possono raggiungere i duecento milioni di dollari.

GLI INSERZIONISTI COMMERCIALI BOICOTTANO FACEBOOK

Facebook ha sempre affermato che intende lasciare ai suoi utenti la massima libertà possibile nella pubblicazione dei contenuti, e questo aveva già causato numerose proteste. Ora, però, gli inserzionisti commerciali hanno iniziato a passare a vie di fatto: il boicottaggio della piattaforma (iniziato una settimana fa da parte di alcuni inserzionisti) sta riscuotendo adesioni anche tra le corporation.

Unilever, Coca-Cola ed Honda si sono unite al boicottaggio, lamentando il danno di immagine che subiscono i loro prodotti quando si trovano ad apparire a fianco a messaggi incitanti all’odio razziale. Unilever ha comunicato che non comprerà inserzioni fino alla fine dell’anno, mentre altre aziende, come Verizon e Ben & Jerry’s hanno già annunciato che valuteranno la loro posizione alla fine di luglio.

Lo stesso giorno dell’annuncio le azioni di Facebook hanno perso il 10% e la loro discesa è proseguita anche dopo che Mark Zuckerberg aveva annunciato una censura più rapida dei post maggiormente violenti ed offensivi. Grazie al suo fatturato, Facebook non riceverà danni sensibili dal boicottaggio, ma ha ricevuto una chiara indicazione di quanto queste decisioni monopolistiche non siano gradite dai suoi migliori clienti.

TRE PROBLEMI ANTITRUST PER LIBRA, LA MONETA ISPIRATA DA FACEBOOK

La Libra Association è il consorzio che controlla lo sviluppo di Libra, la stablecoin ispirata da Facebook. In teoria, dovrebbe raggiungere un centinaio di partecipanti, ed è opinione comune che la sua stessa dimensione sia sufficiente a porla al riparo dalle indagini delle autorità antitrust. In realtà questo ragionamento presenta numerosi punti deboli.

– Esiste l’indicazione di partecipazioni azionarie tra numerosi membri del consorzio. Ad esempio, alcuni partecipanti hanno investimenti in alcune startup, che fanno parte anch’esse del consorzio. Dando per scontato che chiunque abbia interesse a difendere il proprio investimento, questo conflitto di interessi potrebbe indurre a comportamenti collusivi.

– La società Calibra (una controllata del gruppo Facebook che dallo scorso maggio ha cambiato il suo nome in Novi) è stata fondata allo scopo di detenere i diritti di esclusiva sul wallet che verrà utilizzato dagli utenti Facebook Messenger e WhatsApp. Queste due applicazioni sono la porta di ingresso per entrare nell’ecosistema Libra e, tra l’altro, collaborano a produrre gran parte dei ricavi pubblicitari del gruppo. Questa posizione dominante può essere messa a profitto in molti modi, ad esempio, con un sistema di tariffazione, o per influenzare lo sviluppo della tecnologia.

– A differenza delle blockchain permissionless, quelle permissioned (come quella proposta dalla Libra Association) hanno comunque un gruppo di controllo. Sebbene le blockchain permissioned non siano di per sè evidenza di comportamenti lesivi alla libera concorrenza, non si può escludere a priori che il suo gruppo di controllo non ne abbia comunque messo in atto qualcuno. Il risultato è che una blockchain di tipo permissioned è una struttura poco sicura dal punto di vista legale: se rifiutasse l’accesso ad una organizzazione, quest’ultima potrebbe comunque accusarla di comportamento illegale e farla sottoporre ad indagine.

La Banca Centrale del Brasile il 24 giugno ha sospeso il servizio di pagamento basato su WhatsApp dopo solo dieci giorni dal suo avvio, citando problemi di concorrenza sul mercato dei pagamenti su smartphone. Fino allo scorso mercoledì appunto, la Libra Association era giustificata nel valutare le problematiche antitrust come un dossier da affrontare in un secondo momento, ora non più. La necessità di adattarsi alle normative del settore bancario ha già provocato una prima mutazione nella struttura di questo gigante. Ora la dottrina antitrust potrebbe causare la prossima.

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