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Il Mediterraneo ribolle e l’Italia? Conversazione con il prof. Parsi

Il quadrante mediterraneo è diventato un dossier multi-strato e multi-sensibilità in cui tutte le faglie interne sembrano in fase di tettonizzazione. La sponda nordafricana soffre ancora l’enorme crisi libica e c’è il rischio di una potenziale saldatura con l’implosione tunisina (sovrapposizione con conseguenze regionali). Il settore orientale vede riaccendersi sfide geopolitiche annose riattivate dalle dinamiche collegate agli interessi energetici; la riva orientale, il Levante, soffre l’instabilità perenne del Libano e non solo. Un quadro complesso, un bacino in cui l’Italia è immersa e su cui Formiche.net ha provato a ricostruire il perimetro delle sfide che l’Italia si trova ad affrontare insieme a Vittorio Emanuele Parsi, politologo, docente di Relazioni internazionali, direttore dell’Aseri dell’Università Cattolica di Milano.

Oggi i ministri Di Maio e Lamorgese sono in Tunisia. Si parlerà di immigrazione, ma chiaramente il dossier è molto più ampio. Il paese nordafricano ha bisogno di aiuto per non finire completamente nel caos e per non saldare la potenziale instabilità con la crisi libica. Ricordo che qualche anno fa a Roma come a Bruxelles si parlava di “un piano Marshall per la Tunisia“, ecco: da qui, qual è attualmente il ruolo dell’Italia?

Innanzitutto dobbiamo comprendere le situazioni. Mi lasci dire che la crisi tunisina ci dà un importante promemoria del fatto che non possiamo pensare che siccome noi abbiamo molti problemi in questo momento, e stiamo diventando oggetto di attenzione internazionale (anche positiva, pensiamo agli aiuti europei), allora siamo autorizzati a non preoccuparci dei problemi degli altri. Temo in realtà che invece una parte del dibattito italiano su tutta una serie di dossier e questioni sia fuorviato da questo. La Tunisia è investita in maniera devastante dai problemi della pandemia, parlo sopratutto in termini economici ancor più che sanitari, e questo accade in un’economia che era già al galleggiamento e senza lo spessore del sistema istituzionale che hanno paesi come l’Italia. Una sommatoria che produce lo sconquasso totale e lo fa in maniera rapida.

Dunque, andare oltre allo stringere accordi per tenersi lontano dai migranti?

È evidente che se un sistema economico come quello tunisino che si blocca completamente, produce migranti economici, che chiaramente (al di là di certi proclami italiani) non possono essere fermati dalle volontà del governo tunisino. Il quadro economico, poi, impatta su un sistema politico miracolosamente ancora in piedi dal 2011, ma sostanzialmente in equilibrio instabile. Dunque, in questo momento sta a noi evitare che l’enorme disastro libico non attiri la Tunisia come un buco nero. Ormai abbiamo imparato che il disordine si mangia l’ordine: siamo davanti a questa situazione.

È sostanzialmente un problema che è già avvenuto in Libia negli ultimi nove anni. Affrontare la situazione concentrandosi troppo (solo?) sulla questione dei migranti, senza spingere per una stabilizzazione più ampia di valore statuale. A cosa si deve?

L’Italia si è mossa sempre tentando di appoggiarsi alle sue membership internazionali. L’appartenenza a Nato e Ue l’abbiamo sempre usata come moltiplicatore delle nostre capacità e come sintesi tra i nostri interessi e quelli dei nostri partner. Ora se si vanno a guardare proprio le origini della crisi libica nel 2011, si può notare come fu la manifestazione dell’insufficienza di questa politica. Sulla Libia e sul regime di Gheddafi ci fu un disallineamento dei nostri alleati in ambito Nato di 180 gradi rispetto alle nostre visioni/posizioni, e, contemporaneamente, qualcosa di simile stava accadendo all’interno dell’Ue (erano i tempi della crisi finanziaria italiana che portò alla caduta del governo Berlusconi. Ndr). Ora vediamo che sul versante del quadro finanziario, grazie al Covid, siamo tornati a riottenere un allineamento della e dentro la Ue sulle nostre posizioni, ma non ci stiamo riuscendo in ambito Nato sulla Libia. Qui va detto anche che il nostro atteggiamento non è stato sempre logico, e talvolta è sembrato debole e confuso, talaltra velleitario e maldestro.

Allargandoci oltre la sponda nordafricana, il Mediterraneo appare ancora più problematico. Mi riferisco alle tensioni nel settore orientale tra Grecia e Turchia, con interessi di stabilizzazione da parte di Stati Uniti e azioni unilaterali francesi, mentre potenze concorrenti come Russia e Cina cercano di costruirsi gli spazi per interferenze. L’Italia è attiva, con Di Maio che ha avuto una conversazione con l’omologo turco per evitare escalation, ma poi?

In quel quadrante la Nato si trova all’interno un fronte di collisione franco-turco. Un confronto a cavallo del Mediterraneo molto molto delicato, proprio perché coinvolge due paesi alleati. Una situazione anche peggiore delle (già piuttosto preoccupanti) penetrazioni russe e cinesi. Perché chiaramente quando hai di fronte un avversario puoi fare il muso duro, avviare il confronto, ma con degli alleati? Riguardo all’Italia, penso che una parte della nostra difficoltà in quel lato del bacino si saldi con quel disinteressamento alle questioni circostanti di cui parlavamo. Noi abbiamo vissuto queste situazioni sempre come “io che sono lasciato solo davanti a…”.

Allarghiamo ancora l’ottica, più a sud-est: oggi sul CorSera c’era un’intervista al gen. Del Col, che ci serve a chiudere il perimetro del quadrante. Il Levante, in particolare il Libano dove Del Col comanda Unifil, è un altro lato del bacino su cui l’Italia ha interessi e coinvolgimento, ma su cui la Francia prova a giocare d’anticipo…

Dobbiamo partire da un punto, però: la Francia crede di vivere in Libano una situazione che non è reale. I francesi vogliono essere ben amati, ma faticano a ricordarsi che c’è un’ampia fetta di popolazione che li detesta perché il settarismo e molti dei problemi libanesi sono legati al loro mandato. Dall’altra parte c’è un’Italia che ha avuto un ruolo decisivo nel lancio di Unifil-2 ai tempi del governo Prodi, un’Italia che da sempre gioca un ruolo importante nella missione di stabilizzazione del sud del Libano, e però politicamente non è mai riuscita a capire cosa fare con tutto ciò. Aspetto tipico dell’Italia in realtà: quando hai buone fiches non capisci la strategia di gioco. Siamo latitanti dal pensiero politico sul Libano rispetto al grande ruolo che abbiamo nel confine meridionale del paese.

E invece, il paese ha un valore geopolitico centrale…

È un punto di riequilibrio del grande quadrante del Medio Oriente allargato, l’area MENA, è la cerniera di un’area che va dal Golfo a Gibilterra. Vediamo qui che la Siria si sta stabilizzando ma non nella direzione auspicata dall’Occidente e se è ovvio che Bashar el Assad è meno peggio dell’IS resta il primo responsabile del macello siriano. L’accordo Israele-Uae è smaccatamente anti-Iran, per cui rischia di portare ulteriore instabilità nella regione, anche perché poggia e scommette sul futuro di regimi fragili e iniqui. La possibilità di ritrovarsi nelle stesse condizioni che precedettero le rivoluzioni del 2010 è tutt’altro che aleatoria. A questo punto il Libano è una sliding doors: o un ulteriore fattore di squilibrio che “va a massa” con gli altri, oppure l’avvio di una stabilizzazione che parte dall’interno ed è assistita a livello internazionale.

… su cui l’Italia che spazi trova?

Per gli sforzi che ha profuso in Libano dal 2006, l’Italia ha il dovere di contribuire al cambiamento e all’evoluzione del paese, all’adeguamento della sua struttura politica e al rilancio di quella economica. A tutto vantaggio della stabilità regionale e mediterranea. La condizione ineludibile è però che questo avvenga con modalità inclusive e non illudendosi di sfruttare il momento per la resa dei conti con questo o quell’altro attore politico domestico (Hezbollah) o regionale (Iran).

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