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Con M5S o no, il Pd ripensi al suo modello di partito. Il commento di Floridia

Di Antonio Floridia

L’intervista a Massimiliano Panarari e poi il commento di Mattia Diletti offrono lo spunto per una riflessione sull’evoluzione del sistema politico italiano, meno schiacciata sulla cronaca quotidiana.

Condividendo le tesi di Diletti, aggiungo qualche considerazione. Partendo da un dato: molti discorsi sul Pd sembrano prescindere totalmente da un’analisi sulle mutazioni di questo partito, dalla sua fondazione ad oggi. E invece, bisognerebbe distinguere accuratamente tra ciò che il Pd voleva essere negli intenti dei suoi fondatori e ciò che il Pd è diventato. E distinguere poi se ciò che è oggi il Pd è frutto di un tradimento delle nobili premesse delle origini o se non sia anche l’esito di un progetto “sbagliato” sin dalle origini. E non si può non constatare come quella del Pd non sia proprio definibile come una success story, e non da ora.

Appare opportuno, almeno ogni tanto, distogliere lo sguardo dalla contingenza, per cercare di capire quali siano stati i movimenti profondi dello scenario politico italiano, nel ventennio che abbiamo alle spalle. Un minimo esercizio di analisi in questo senso ci restituisce un panorama che, usando una metafora geologica, potremmo paragonare alla “deriva dei continenti”, ossia il distacco di placche tettoniche che hanno radicalmente mutato la geografia politica italiana. In dieci anni, tra il 2008 e il 2018, interi blocchi di elettori (circa tre milioni per volta, in tre elezioni) si sono “staccati” dall’area del centrosinistra.

Si è entrati in un’epoca di grande volatilità, ma oramai possiamo cogliere anche tendenze profonde: è consapevole il Pd che il distacco di milioni di elettori, in questo decennio, nasce da una profonda frattura, da una “disconnessione” radicale, che – stante l’attuale profilo e modo di essere del partito – ben difficilmente potrà essere ricomposta in tempi brevi? Si rende conto il Pd che il suo stesso “marchio” è oramai profondamente logorato, e che – al massimo – come forse sta accadendo – si possono tamponare le perdite? Si è consapevoli del fatto che interi “continenti” di elettori (ossia, interessi e forze sociali, interi pezzi della rappresentanza popolare) si sono oramai allontanati e che dunque occorre ripensare completamente l’orizzonte strategico in cui ci si muove?

Riproporre un’identità “riformista”, in tale contesto, rischia solo di essere l’evocazione di un “significante vuoto”. “Riformismo” (che un tempo si definiva come un approccio opposto al “massimalismo”, ma comunque interno al campo di chi voleva cambiare il mondo), oggi non significa più nulla: le “riforme” sono quelle che vorrebbe imporci il liberale Rutte, o sono le “riforme di struttura” a cui pensavano Giolitti e Lombardi (ma anche Giorgio Amendola), e di cui ancor oggi ci sarebbe un gran bisogno?

Quanto al Pd, la questione del suo “riformismo”, come ben sottolinea Diletti, pone un interrogativo radicale sulla sua cultura politica: a parte alcuni convegni iniziali (a Orvieto, nell’ottobre del 2006, con le relazioni di Scoppola e Gualtieri; o qualche tentativo di Reichlin che provò a pensare il Pd come l’incontro tra l’”umanesimo socialista” e il “personalismo” dei cattolici democratici), questo “riformismo” non ha mai potuto essere “aggettivato”, ossia non è mai riuscito ad avere un qualche fondamento politico-culturale. E per un semplice motivo: non si poteva “forzare” né in un senso né in un altro, se si voleva “tenere insieme” il partito.

Il Pd è stato preda di una sindrome “montaliana”; poteva dire soltanto “ciò che non siamo, ciò che non vogliamo”. Ed in ciò non c’è alcun “tradimento” delle origini, perché anzi sin dall’inizio si teorizzò un “partito post-ideologico”, in cui si poteva stare insieme solo sulla base dei “programmi”: ma i programmi, in sé, non reggono, e anzi non si riescono neppure ad elaborare, se non muovono da un’ispirazione politica e ideale.

Alla luce di queste considerazioni, il fatto che oggi il Pd (o almeno alcune sue componenti, il cui “ideologo” possiamo identificare in Goffredo Bettini) si ponga il problema di “un’alleanza strategica” con il M5S, può essere letto come pura realpolitik; ma, al contrario, può essere forse meglio letta come una ripresa di un classico modello strategico radicato nella tradizione comunista italiana e nel togliattismo: uno “spirito” e un “atteggiamento unitario” che cerca di cogliere l’elemento di “verità” presente nelle altrui posizioni. Porre il problema di “un’alleanza strategica” non significa cercare di convincere Di Maio o Di Battista: significa provare a “parlare” con milioni di elettori che erano “tuoi” e ti hanno voltato le spalle. Del resto, se questi elettori hanno trovato più allettante l’offerta del M5S, puoi pensare forse di recuperarli accusandoli di essere “populisti”, o peggio, trattandoli con toni sussiegosi e talora un po’ sprezzanti? O forse non è il caso di riconoscere, ad esempio, che aveva ragione il M5S a proporre una misura (per quanto mal congegnata) come il reddito di cittadinanza, e che avevi torto tu, se nel corso della tua esperienza di governo, non sei riuscito a proporre e realizzare nulla di simile?

Certo, questa operazione strategica presuppone che il Pd stesso sappia ripensarsi; ed è singolare che tutti chiedano, giustamente, a Conte e al governo, una “visione” senza chiedersi se il Pd, in quanto tale, ce ne abbia una. Nei giorni scorsi, Gianni Cuperlo ha pubblicato un ottimo documento politico (“Radicalità per ricostruire”) che cerca di aprire una discussione su questo fronte. Un tentativo meritorio, ma che si scontra con un insieme di vincoli “esistenziali” (su cui quel documento sorvola), legati alle mutazioni avvenute nel corpo stesso di questo partito, al suo modello di democrazia e di gestione interna: un partito che appare ingovernabile e feudalizzato, e perciò stesso “respingente”, nei confronti di tutto coloro che, dall’esterno, magari potrebbero avere la malaugurata idea di voler dare una mano.

Qualsiasi contributo alla discussione sul profilo politico-culturale del Pd non può perciò che andare di pari passo con una proposta radicale di ricostruzione dell’intero modello di partito che, di fatto, si è via via costruito negli anni, al di là della retorica sui miti fondativi.  C’è qualche idea, a tal proposito?

 

 

 

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