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Il Pd, Bettini e la cultura riformista (che non c’è). L’analisi del prof. Diletti

Di Mattia Diletti

L’intervista di Francesco Bechis a Massimiliano Panarari apparsa su Formiche.net è molto interessante. In sostanza accusa Goffredo Bettini di compiere una cesura col proprio passato: tagliare i ponti con la tradizione riformista, accettando lo status quo dell’alleanza con il Movimento 5 Stelle per ragioni di realpolitik. Il populismo è la cifra di questa epoca, alleiamoci con lui perché non ci sono alternative. La lettura di Panarari è quella di una persona attenta alle trame politico-intellettuali di questo Paese: il movente della realpolitik è innegabile. Ed è nelle corde di Bettini trovare parole che convinceranno i suoi, essendo un uomo colto e avendo dalla sua l’origine politica ingraiana e immaginifica. Però, forse, stiamo esagerando nell’attribuire a Bettini sia l’esecuzione di un piano di ampia portata, sia l’uccisione del riformismo italiano.

Perché, per essere riformisti, serve una cultura politica intellegibile a monte. Il Pd, già nel 2007/2008, nasceva senza vera sintesi di cultura politica e in nome della realpolitik: un grosso contenitore con dentro gli eredi dei partiti dell’Arco costituzionale, i quali attendevano la dipartita politica di Berlusconi. Certo, era più facile camuffare quell’alleanza dietro una presunta linea di cultura politica unitaria: c’era ancora un po’ di know how. I tentativi fatti a sinistra per nobilitare l’impresa – Reichlin, Vacca, Gualtieri – non hanno retto alla prova del tempo; e anche la Dc tecnocratica alla Prodi aveva un profilo di cultura politica abbastanza indefinito, in realtà.

O meglio: tutti gli attori in campo avevano un portato personale che incarnava culture, tutti venivano “da lontano”, però nessuno si mise davvero a costruirne una nuova. Troppo faticoso, divisivo, impegnativo, forse mai davvero desiderato. Le diverse anime si tenevano insieme grazie alla realpolitik, appunto, e grazie alla cultura del “buon governo”: governare bene può essere un merito, ma in politica non basta a dare struttura a un progetto. Il paradosso dell’Italia, evidentemente, è stato quello di essere un’anomalia iperpolitica durante la Guerra fredda, e il suo contrario dopo (del discorso del Lingotto meglio non parlare: difficile vederci una Bad Godesberg).

Il Pd, alla fine, è nato vecchio: era un partito senza forma e cultura politica definita, buono forse in un’epoca di benessere e scarsa conflittualità, non certo per definire una via per un Paese in crisi. La sua esistenza, di per sé, certifica che era nato da una classe politica che non analizzava più la società italiana: altrimenti avrebbe fatto un’altra cosa. La crisi del 2008, poi, ha rotto legami sociali, e ha aumentato l’appeal del grillismo. Poi è arrivato il governo Monti – che ha aiutato a delegittimare la funzione dei partiti: a che servono se si ritirano in seconda fila quando ci sono le crisi vere? – e il blairismo fuori tempo massimo di Matteo Renzi.

All’alba di una storica crisi economica, il blairismo renziano offrì competizione e champagne a un Paese sotto istruito, sotto occupato, senza un welfare universale integro, che riproduce diseguaglianze e riduce la coesione sociale. Per un po’ piacque il tema della rottamazione: il resto è stato bocciato presto. Era quella una cultura riformista? I cosiddetti riformisti di quella breve stagione hanno creduto che quel frammento di borghesia al quale appartengono – quella che prende il Frecciarossa fra Torino e Roma – fosse “il” Paese. Deficit di analisi, riforme che andavano in direzione contraria ai bisogni dettati dalla crisi. Altro che riformismo. Qui, forse, il punto debole dell’intelligente intervista di Panarari: ma con quale cultura riformista questo Pd starebbe rompendo, oggi?

Il Pd è furbo a sufficienza per sapere questa cosa: può convenire allearsi con i 5 Stelle, gestire, e poi rivendicare l’opera di aver riportato un pezzo di società italiana nel sistema democratico. Ogni tanto farà una buona azione – ne è capace, ci sono comunque persone e risorse – e si tirerà avanti. Oggi, all’alba del Recovery Fund, per certificare l’esistenza in vita di una cultura riformista, basterebbe avere più eredi del Piano Vanoni e meno modernizzatori da caricatura. Ma non ne abbiamo molti: e quindi speriamo che la baracca regga. Con i Mattarella, i Visco, un po’ di deep State, Conte che è più statista di Salvini, il Pd che galleggia: forse è più italica l’arte del sopravvivere, che la morte di una stagione politica riformista che non pare essere mai nata.

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