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Il successo dei microchip taiwanesi nelle tensioni Usa-Cina

Le crescenti frizioni tra Stati Uniti e Cina hanno, forse indirettamente, mietuto la prima vittima. La settimana scorsa è stata probabilmente una delle pagine più cupe nella storia di Intel, azienda simbolo della leadership tecnologica statunitense nel mercato dei semiconduttori negli ultimi trent’anni.

Grazie a una straordinaria combinazione di chip design e delle più avanzate strutture di fabbricazione, la compagnia con base a Santa Clara, California, era stata tra le uniche a mantenere la produzione in loco: una business strategy che le aveva assicurato una posizione competitiva sulle concorrenti americane (Qualcomm, Apple, Nvidia) e soprattutto sulla crescente sfida delle aziende asiatiche.

Un rapporto di aprile della Brookings Institution aveva sottolineato come la dipendenza della Cina dalle tecnologie statunitensi, coreane e taiwanesi nel settore dei microchip rappresentasse “un interesse di sicurezza” per le nazioni democratiche da tutelare per “prevenire l’utilizzo e lo sviluppo della Cina di tecnologie pericolose e destabilizzanti”.

A oggi quel vantaggio si è progressivamente eroso e l’annuncio di Intel del ritardo nella produzione dei semiconduttori con architettura a 7nanometri sembra confermarlo, sancendo un momento chiave negli equilibri di mercato. Il colosso dell’informatica ha infatti stimato che la produzione dei nuovi microchip potrebbe slittare nel 2023, in parte in conseguenza della disruption causata dalla pandemia. Lo shock ha fatto perdere ad Intel il 16% delle quotazioni, con una perdita di mercato stimata di 41 miliardi di dollari.

Il terremoto commerciale ha innanzitutto innescato un rapido turnover all’interno della compagnia, con un cambio nel management che ha visto la dipartita di Murthy Renduchintala, ingegnere e personalità chiave nell’executive board, sostituito da Ann Kelleher con l’ingrato compito di seguire il progetto di sviluppo dell’azienda in un contesto commerciale fortemente instabile. “Riteniamo che questi passi falsi sulla roadmap”, ha commentato lapidario Chris Caso, analista di Raymond James, su Bloomberg, “possano rappresentare la fine del dominio di Intel nel computing”.

Inoltre, il ceo Bob Swan non ha escluso che per rientrare nelle commesse il colosso informatico potrebbe addirittura prendere in considerazione di delocalizzare la produzione. Una mossa che sancirebbe un decisivo cambio di paradigma per il business di Intel – e in controtendenza rispetto agli sforzi dell’establishment americano – volta a prediligere il design sulla fabbricazione di chip, come puntualizzato dal Financial Times. Tra le possibili nuove partnership, tutti gli indizi portano al colosso Tsmc, principale produttore di microchip per le più grandi compagnie tecnologiche e informatiche globali. Samsung è l’unica realtà che può vantare un know-how tecnologico equiparabile, ma con una fetta di mercato notevolmente ridotta, mentre la cinese SMIC è parecchi anni indietro rispetto allo stato dell’arte dei microchip. “Delocalizzando tecnologia all’avanguardia, probabilmente a Tsmc”, nota Caso, “Intel cederà quello che è stato il suo vantaggio competitivo per 50 anni”.

Anche i mercati azionari sembrano confermare tale speculazione, dal momento che la capitalizzazione di mercato dell’azienda taiwanese è schizzata del 10% (circa 33 miliardi). Recentemente, un rapporto di China Times ha avanzato l’ipotesi che Intel avesse già raggiunto un accordo con Tsmc, grazie a una collaborazione tecnica di vecchia data, per produrre i suoi microchip già a partire dal prossimo anno.

Se queste ipotesi venissero confermate, Tsmc ne uscirebbe ulteriormente rafforzata rispetto al suo storico rivale. Secondo il South China Morning Post, l’azienda di Taipei è stata una delle pochissime realtà nel settore a non aver subito un significativo ritardo nella produzione e nelle commesse in seguito all’emergenza sanitaria, contando su una considerevole fetta di investimenti dei suoi clienti in infrastrutture 5G e in high-performance computing. I dati riportati dalla CNN lo confermano: dietro a Amazon e Tencent (+65%; 44%), è stata tra le migliori aziende tech per performance borsistica.

In un mercato, quello dei microchip, fortemente interdipendente è possibile che l’escalation tra le due superpotenze su uno dei settori più strategici per l’egemonia tecnologica abbia indotto effetti indesiderati. Secondo l’ultimo rapporto della Semiconductor Industry Association, già lo scorso anno il mercato globale ha registrato una contrazione del 12%, con previsioni per il 2020 inevitabilmente al ribasso per effetto del Covid-19. L’industria dei semiconduttori americana detiene, inoltre, il 51% del mercato Idm (Integrated Device Manufacturing), ovvero quella quota posseduta da aziende che disegnano, producono e vendono i microchip (come era di fatto Intel). Una fetta considerevole destinata, sempre secondo la Sia, a contrarsi senza un adeguato supporto del governo federale. Ecco perché i passi avanti al Congresso della settimana scorsa, come raccontato da Formiche.net, sembravano suggerire una rinnovata attenzione dei policymaker nel sostenere un’industria cruciale per la competitività americana e nella sfida tecnologica con Huawei.

Una convinzione in parte confermata dal crollo di mercato improvviso di Intel, il quale ha influito esponenzialmente nella sessione di contrattazioni mattutine della Borsa di Taipei il 26 luglio: Tsmc ha raggiunto una quotazione di mercato di oltre 400 miliardi di dollari, scalando le gerarchie mondiali e superando potenze industriali come Tesla, P&G, la stessa Intel e Samsung. Il colosso taiwanese dei microchip è dunque ora la terza azienda asiatica per valore di mercato, dopo Alibaba e Tencent.

Godendo di questa impressionante posizione di mercato, con l’equilibrio spostatosi verso l’Asia-Pacifico, è possibile che Tsmc diventi un vero e proprio trigger nell’attuale scenario di competizione tra Stati Uniti e Cina sui microchip, accelerando ulteriormente la strategia americana nei confronti di Huawei e non solo.

Se infatti il parziale fallimento di Intel indurrà Washington ad implementare ancor più il decoupling tecnologico – specialmente nel settore dei microchip, sovvenzionando la sua industria domestica – con le misure restrittive a cui la settimana scorsa Tsmc ha deciso di aderire, secondo l’opinione di Scott Kennedy, senior adviser al Center for Strategic and International Studies, “l’economia di Taiwan soffrirà ulteriormente e cresceranno probabilmente anche i rischi di un conflitto attraverso lo stretto”.

Questo perché Tsmc rappresenta, in qualità di azienda sempre più “insostituibile” nel mercato dei semiconduttori e principale fornitore di Huawei (il 12% delle sue vendite), un “enorme disincentivo” dal punto di vista economico per la Cina a sobbarcarsi i rischi di un conflitto aperto con Taiwan. In sostanza, il decoupling Usa-Cina indurrebbe un effetto domino anche nelle relazioni commerciali tra Pechino e Taipei, aumentando così i benefici, rispetto agli svantaggi, di un’invasione dell’isola.

Di converso, la nuova caratura di Tsmc in qualità di “re dei semiconduttori” potrebbe non passare inosservata e influire notevolmente sugli sforzi finanziari del colosso. Secondo Bloomberg, oltre a diventare il fornitore di riferimento di Apple, Nvidia, Qualcomm, MediaTek e Broadcom, Tsmc attirerebbe lo sguardo interessato dei “regolatori”, come già accaduto nel 2017 con la Commissione europea e l’Us Fair Trade Commission, sempre più preoccupati dall’uscita dalla penombra di una delle “più potenti compagnie tecnologiche mondiali”. Difficilmente, in questa posizione rafforzata, Tsmc potrebbe accettare a lungo di giocare il semplice ruolo di jolly americano nella competizione con Pechino.

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