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Università, si parte. Con quali rischi per studenti e prof? Scrive Ricci

Di Alessandro Ricci
fuori sede

Tra un paio di settimane riprenderanno i corsi universitari. Le incertezze, le incognite e le criticità sono forse superiori a quelle del mondo della scuola, di cui tanto si continua a dibattere. La maggior parte delle università ha dato libera scelta ai docenti se svolgere le lezioni a distanza, come si è fatto a partire da marzo, oppure in modalità mista, vale a dire facendo didattica in presenza per un numero massimo di studenti, stabilito in base alla capienza delle aule e dando per lo più la priorità alle matricole, offrendo la possibilità agli altri studenti di collegarsi via streaming.

Il ministero ha lasciato discrezionalità agli atenei di organizzarsi, in un meccanismo di scarico di responsabilità e con poche regole certe: i coordinatori della facoltà devono gestire gli spazi comuni, i coordinatori dei corsi di laurea organizzare la didattica, cercando di non intervallare le lezioni in presenza con quelle a distanza – senza considerare che molti atenei in Italia non riuscivano, in assoluta normalità, a evitare anche semplici sovrapposizioni di orari tra le lezioni –, i docenti di monitorare la situazione in aula.

Molte aule di diverse università non sono ancora predisposte per la diretta streaming (che dovrebbe svolgersi con una telecamera fissa in aula e un microfono collegati al pc), pertanto almeno nelle prime fasi molti docenti dovranno portare il proprio pc, collegarsi alla piattaforma di riferimento scelta dall’ateneo, avviare l’aula virtuale, accettare gli ospiti, fissare la telecamera nella giusta direzione e svolgere la lezione sia per gli studenti presenti sia per quelli collegati. Con il concreto rischio di non essere efficaci né per gli uni né per gli altri. Molto banalmente, senza essere esperti di comunicazione, durante la lezione a chi deve rivolgersi il docente, con chi deve interloquire? Si tratta, per chi ha un minimo di esperienza didattica, di questioni di primaria importanza affinché la lezione sia efficace, oltre alle innumerevoli criticità che tale sistema porta con sé: le reti wifi di molte università sono spesso instabili, col rischio di disconnessioni continue e di interruzione delle lezioni; le piattaforme presentano spesso falle e talvolta si disattivano. E poi, la didattica online necessita di un’attenzione alla piattaforma non garantita se si svolge lezione in presenza.

Non solo: cosa faranno gli studenti tra una lezione in presenza e una a distanza? Gli spazi comuni sono divenuti quasi inaccessibili (prova ne è che in questo periodo le facoltà sono deserte e l’accesso è in alcuni casi precluso) e già prima dell’epidemia erano in molti casi appena sufficienti alla capienza normale: dove potranno banalmente appoggiarsi per seguire le lezioni o attendere, se i posti all’interno sono dimezzati e le aule studio e le biblioteche sono ancora – e inspiegabilmente – al momento per lo più chiuse? 

Certo, riapriranno. Ma nel frattempo in moltissimi casi risultano ancora inaccessibili al pubblico, con norme per il prestito dei libri spesso complesse se non, in molti casi, assurde: i libri vengono messi in quarantena (!), gli orari sono stati drasticamente ridotti (perché, cosa impedisce di garantire il normale servizio di prestito?!), si deve necessariamente prendere appuntamento preventivo, eccetera. Tale apparato di norme risulta francamente di difficile comprensione: perché tra i primi esercizi commerciali ad aver riaperto ci sono state le librerie, con tanto di fanfara retorica mediatica, senza alcuna quarantena per gli stessi libri? Perché i quotidiani si sono – giustamente – venduti normalmente, mentre i libri delle biblioteche devono subire trattamenti ad hoc? Non sono forse fatti sempre di carta? E inoltre: perché i ragazzi possono incontrarsi ovunque, entrare in un ristorante, rispettare le distanze nei bar, nelle enoteche e in tutti gli altri spazi aperti al pubblico, ma non possono tornare a studiare nelle proprie facoltà, in biblioteca e vivere normalmente, con le precauzioni del caso, gli ambiti che sono anche e soprattutto i loro e per i quali hanno pagato delle tasse?

Chiunque faccia ricerca sa che internet è ormai un supporto fondamentale ma, al contempo, le biblioteche fisiche sono insostituibili: per la capacità di concentrazione che garantiscono e per la fruibilità dei libri in via immediata. Vi è un ulteriore problema, riguardo alle biblioteche: ci sono studenti che devono laurearsi, ricercatori che vorrebbero svolgere il proprio lavoro, altri ragazzi che vorrebbero semplicemente avere un luogo di studio adeguato, adibito allo scopo e oltretutto senza dover necessariamente comprare libri. La scelta della chiusura, oltre che incomprensibile, appare lesiva del diritto allo studio e al lavoro di ricerca ma anche iniqua socialmente, sfavorendo soprattutto gli studenti che hanno meno possibilità di acquisto.

Rimane, inoltre, una questione di fondo, che riguarda la vivibilità degli spazi universitari. Lo dico da geografo, da chi cioè studia le dinamiche spaziali e il rapporto che sussiste tra l’uomo e il proprio ambiente di riferimento, ma anche da ricercatore che vorrebbe tornare alla normalità del proprio lavoro. L’università è un luogo che ha senso non solo perché si erogano corsi e li si seguono, ma perché è lì avviene l’incontro, la collaborazione, il confronto, il dialogo (dal vivo), lì si scambiano parole e opinioni in aula, nei corridoi, al bar e negli spazi comuni. E la tecnologia non potrà mai sostituire la vitalità sociale insita nell’istituzione accademica.

Sono mesi che le facoltà sono pressoché deserte, i parcheggi – di solito stracolmi – sono vuoti. Tecnici e addetti alle pulizie svolgono le mansioni minime senza la solita frenesia, i baristi sono ridotti al minimo e col rischio imminente di chiusura e di futura disoccupazione, non appena terminerà il blocco dei licenziamenti stabilito dal governo. Con la “desertificazione” degli spazi universitari, a lungo andare, si rischia un ripiegamento repentino dell’università, per come è stata concepita nell’arco di un millennio, a erogatrice di corsi online o poco più, come una qualsiasi università telematica, senza però averne le stesse capacità e tecnologie per svolgere al meglio quel lavoro.

Il rischio ulteriore è che la vitalità dell’università venga progressivamente meno, per lasciar posto a una didattica a distanza che presenta enormi incognite, problemi e di sostenibilità nel tempo che possono mettere in discussione non solo l’istituzione universitaria ma anche il tessuto socio-economico che attorno ad essa ruota: bar, tavole calde, mobilità, affitti e via dicendo.

Il che, nel lungo periodo, potrebbe anche mettere in crisi quelle che oggi sembrano granitiche certezze: perché – è evidente la provocazione – l’università dovrà pagare diversi docenti di una stessa disciplina se può utilizzarne uno solo che eroghi, per tutti gli studenti, i corsi in via telematica? E ancora, esasperando tale concetto: perché bisognerà pagare uno stipendio fisso al singolo docente, se uno soltanto può registrare una volta sola il singolo corso?

Si tratta, è evidente, di una riflessione estremizzata, ma in fondo cosa impedisce di arrivare a tali risultati, tra qualche anno, se già adesso studenti e docenti invocano come diritto quello di rimanere a casa, senza che un dibattito vero e profondo si sia mai avviato – in maniera critica – sul pieno ritorno alla normalità? E qual è la soglia minima di malattie contagiose utile a interrompere, un domani e passata tale infinita “emergenza”, il sacrosanto diritto allo studio, alla mobilità e alla vita sociale insita in quella universitaria?

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